martedì 29 giugno 2010

Introduzione alla qualità- Un po' di storia

'obiettivo è creare una conoscenza iniziale dei problemi legati alla qualità a partire dalla definizione di qualità e ad alcuni elementi qualificanti della storia di questo concetto per giungere alla seconda metà del ‘900 in cui da più parti i problema è stato posto in termini scientifici. Sul finire degli anni ’80 (precisamente nel 1987) viene pubblicata la prima edizione della norma ISO sulla qualità che via via è stata implementata e migliorata fino all’ultima edizione della ISO 9001 del 2008. Le norme ISO sulla qualità possono essere utilizzate da tutte le organizzazioni che operano nei diversi settori industriali o di servizi, profit o non profit con beneficio di chiarezza sia sui fini sia sugli strumenti di gestione dell’organizzazione stessa.



Un po’ di storia della qualità

Nell'antichità

Il concetto di “qualità” non è statico, è sempre esistito ma si è profondamente evoluto con il passare del tempo, con il mutare del mercato e delle esigenze dei clienti.
La qualità appare per la prima volta con l’approccio al lavoro di tipo artigianale in cui l’esecutore è, contemporaneamente, produttore e controllore del proprio operato.
Ci viene tramandato che, già ai tempi dei Fenici, ci fossero ispettori che mozzavano la mano a chiunque violasse gli standard stabiliti.
Nel codice di Hammurabi, intorno al 2150 a.C., si descriveva, invece, come dovessero essere costruite le case e si prescriveva che un muratore che avesse costruito male una casa, dovesse essere addirittura ucciso!
La più antica "guida alla qualità", risale, invece, al 1450 a.C. ed è stata scoperta in Egitto. Spiega come è possibile verificare, con l'aiuto di una corda, la perpendicolarità di un blocco di pietra.
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(Nella foto la stele del codice di Hammurabi conservata al Louvre di Parigi)

In questi esempi, che risalgono agli albori dell’organizzazione degli stati, il concetto di qualità non ha ancora assunto un’identità autonoma: si osserva che, in particolare, è contenuto nel diritto e spesso prevede sanzioni di natura penale per chi non si attiene alle norme.



Nel Medioevo

Nel Medioevo si assiste all’avvento delle Corporazioni, che, per prime, avviano la formalizzazione delle regole sulle modalità di lavoro occupandosi del “maestro” e descrivendone responsabilità e poteri. Le Corporazioni delle arti e mestieri erano delle associazioni, create a partire dal 1200 in molte città italiane ed europee, che avevano lo scopo di regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti ad una stessa categoria professionale. In Italia esse furono definite genericamente Arti.

In certi casi le Corporazioni sembrano formarsi come derivazione di preesistenti confraternite religiose, mentre altre vengono create basandosi sul sodalizio ufficializzato da un giuramento che impegna i membri all’assistenza reciproca e alla difesa degli interessi comuni. Le Corporazioni nel corso del '200 riescono a inserirsi e ad assumere un ruolo guida nelle istituzioni cittadine, estendendo il loro controllo a funzioni di natura pubblica come quello sui pesi e le misure e la sorveglianza delle strade. Il reale peso politico raggiunto dalle corporazioni nei governi cittadini varia molto a seconda delle città, ma indipendentemente dalle diversità e dal coinvolgimento politico più o meno profondo, il compito primario di ogni corporazione era la difesa dell’esercizio di quel dato mestiere. Chi lo praticava senza essere iscritto veniva considerato, dalla corporazione, un potenziale pericolo verso gli iscritti.

Esistono tratti comuni a tutte le Corporazioni, riguardanti la loro linea di condotta e gli scopi perseguiti e tra questi, al fine dell’argomento qualità, sono di maggior interesse i seguenti:

• La tutela della qualità dei manufatti - i regolamenti interni delle corporazioni imponevano un rigido controllo sull’uso delle materie prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e quello che oggi chiameremmo la lotta ai falsi, cioè quei prodotti che non rispettavano gli standard qualitativi previsti dalle associazioni. Risale proprio a quel tempo la definizione di una regola d’arte in quanto le corporazioni si erano dotate di dettagliati regolamenti.

La formazione - particolare attenzione veniva rivolta alla preparazione professionale dei nuovi addetti. Era previsto un periodo di apprendistato di durata variabile da città a città, nel quale l’apprendista, che entrava nella bottega del maestro poco più che bambino, si impegnava nell’apprendimento e il maestro che si impegnava ad insegnargli tutti i segreti del mestiere. La trasmissione del know-how garantiva la ripetibilità delle caratteristiche del prodotto, la preservazione e lo sviluppo tecnico del mestiere.

Il controllo – a volte le Corporazioni avevano l’esercizio della giurisdizione sui loro iscritti, per cui spesso avevano una competenza esclusiva nelle materie di loro competenza, tra cui le infrazioni commesse verso i regolamenti, pertanto anche quelle verso i regolamenti riguardanti la tecnica della professione.

Il marchio – anche l’apposizione del marchio sul prodotto viene introdotto nell’epoca delle Corporazioni, allo scopo di identificare il produttore per il quale si assicurava quindi la riconoscibilità (un primo esempio di tracciabilità) e quindi la responsabilità





A completamento dell’argomento si propone una lettura. Un estratto sul tema delle Corporazioni del Dizionario Storico della Svizzera.

Corporazioni (Arti)

Autrice/Autore: Katharina Simon-Muscheid / mdi


Dizionario storico della Svizzera

URL http://hls-dhs-dss.ch/textes/i/I13729-1-1.php

Il tipo ideale di corporazione era un organismo multifunzionale, cui spettavano vari compiti: la rappresentazione degli interessi corporativi finalizzata a garantire la prosperità dell'attività commerciale, la protezione dalla concorrenza esterna, la formazione e il controllo degli apprendisti, nonché la definizione delle norme di qualità per i prodotti artigianali e la vigilanza sul loro rispetto. La corporazione costituiva al contempo una confraternita religiosa che tutelava la salvezza dell'anima dei propri membri, e una forma di sociabilità che contraddistingueva sia la vita quotidiana degli affiliati che le loro feste. La corporazione assunse anche in seno alla collettività cittadina compiti centrali, tra cui la difesa dagli incendi e la protezione militare; là dove conseguì una posizione politica di rilievo, partecipò al governo cittadino. Nel ME e nell'epoca moderna, tuttavia, le strutture e le funzioni delle corporazioni presentavano importanti differenze da una città all'altra e da un Paese all'altro, a dipendenza dei rapporti di potere e delle premesse socioeconomiche. Nel corso dei sec., inoltre, le corporazioni mutarono a seconda degli sviluppi economici e politici. Gli statuti delle corporazioni di Basilea degli anni 1226-71 costituiscono una delle più antiche testimonianze sulla nascita di una corporazione. L'atto costitutivo presupponeva da parte dei membri di una determinata categoria professionale un libero accordo sulla formazione della propria corporazione, che il vescovo approvava in qualità di signore cittadino. Il nucleo dell'accordo era costituito dall'obbligo di iscrizione alla corporazione, che consentiva l'esercizio del mestiere in questione solo ai membri della stessa. Le violazioni del regolamento corporativo erano punite con ammende, destinate per un terzo al vescovo e per i due terzi restanti alla città e alla corporazione. Il vescovo eleggeva un Maestro della Corporazione tra i membri affiliati ad essa e ogni anno nominava un ispettore generale.


La Rivoluzione Industriale

Fra il 1760 e il 1830, secondo la cronologia definita dagli storici più accreditati, si svolge la prima rivoluzione industriale inglese che ha comportato ampie modifiche e innovazioni in tutti i settori: dall’agricoltura ai trasporti e fin anche alle tecniche finanziarie. Le cause di questo fenomeno d'industrializzazione sono diverse e dovute a più elementi convergenti e reciprocamente trainanti. La macchina a vapore, con la quale spesso si identifica la rivoluzione industriale, è solo uno fra i tanti fattori dell’industrializzazione e solo una fra le innumerevoli innovazioni tecniche dell'epoca.

La prima rivoluzione industriale inglese riguarda il settore tessile e metallurgico ed è preceduta dalla rivoluzione agricola. La seconda rivoluzione industriale inglese avrà luogo nei decenni successivi.

La storiografia contemporanea ha dato importanza al ruolo svolto dalla rivoluzione agricola che si è verificata in Inghilterra a partire dalla metà del 1700 e che costituisce la base determinante per la successiva rivoluzione industriale. Il ruolo svolto dalla rivoluzione agricola è stato rilevante per più aspetti:

• l'incremento della produzione agricola ha potuto sostenere lo sviluppo demografico, iniziato a metà del XVIII secolo, fornendo una maggiore e migliore alimentazione;

• l'incremento produttivo agricolo ha inoltre liberato forza lavoro che è stata assorbita dall'industria del cotone e metallurgica che ha potuto continuare ad espandersi;

• l'aumento della produttività nell'agricoltura e l'incremento del reddito agricolo hanno creato sbocchi al mercato interno per i prodotti industriali;

• il miglioramento e la diffusione di utensili agricoli ha sostenuto la domanda di ferro incentivando la produzione e l'innovazione nell'attività metallurgica.

In questo periodo si ebbe il passaggio da una produzione artigianale (un’industria domestica molto diversificata che si basava sulle richieste del consumatore, utilizzava manodopera con alta professionalità e accentrava al massimo il potere decisionale) ad una produzione di massa (standardizzata al massimo, basata su manodopera poco specializzata, meno costosa rispetto alla produzione artigianale).

Ciò ha comportato anche fenomeni ad impatto sociale negativo quali la realizzazione di quartieri operai che non sempre garantivano un adeguato livello di vita.

Le quantità prodotte aumentarono considerevolmente grazie all’utilizzo dell’energia termica ricavata dal carbone, all’introduzione di nuovi macchinari, alla possibilità di trasportare le merci su rotaia e alla suddivisione del lavoro.

In questo tipo di produzione, i risultati qualitativi dipendevano sempre meno dalle capacità dei singoli operatori e sempre di più dalla progettazione e dalla formalizzazione dei processi produttivi. Con la prima rivoluzione industriale, quindi, ci fu una spinta verso un concetto di qualità più formalizzato.

Un saggio di questi aspetti ci viene offerto dal un documentario dalla BBC di cui se ne propone una parte.



La seconda Rivoluzione Industriale

La seconda rivoluzione industriale (fine’800) fu favorita da innovazioni tecnologiche e dallo sfruttamento dell’energia elettrica. L’industria subì un’ulteriore trasformazione con una suddivisione del lavoro sempre più spinta, esasperata infine con la catena di montaggio di tipo fordista.

Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, le organizzazioni iniziarono a basarsi sull'ispezione e sul collaudo. La "quantità" rimane un obiettivo della produzione mentre la "qualità" viene affidata ad un nuovo ente separato, il Collaudo.

Sul tema del collaudo vedi il video: vai al link

http://www.youtube.com/watch?v=dMw-pgmg1vc&feature=PlayList&p=E373F765DF3EAE80&playnext_from=PL&playnext=1&index=3


Negli anni ‘20

Gli anni ’20 sono quelli della nascita delle grandi aziende con modelli organizzativi complessi. Naturale conseguenza di ciò è la necessità di sottoporre le variabili di processo a controlli rigidi per riuscire a produrre quantità sempre più elevate e a costi sempre inferiori. Il mercato di quegli anni era caratterizzato da:

- grandi volumi

- manodopera non qualificata

- standardizzazione dei processi produttivi.

Scopo del controllo qualità era quello di garantire la conformità del prodotto, verificando i punti critici della produzione attraverso l'esame dei difetti ripetitivi, con l'obiettivo principale di separare i prodotti conformi da quelli non conformi

A questo punto comincia ad evolversi il concetti di qualità. In particolare in questi anni si assiste alla nascita dei primi metodi statistici per il controllo della qualità basati su supporti grafici: le così dette carte di controllo.

Si propone un video emblematico del funzionamento della fabbrica in quegli anni: La catena di montaggio della Ford modello T. per vedere il video andare su you tube seguendo il link di seguito trascritto.

http://www.youtube.com/watch?v=Iejyyn3ikAQ&feature=related


Tra il 1920 e il 1945 si sviluppano le tecniche di controllo statistico della qualità dell’output grazie a Gorge D. Edwards e a Walter A. Shewhart. Si introdussero tecniche di controllo sull’intero processo produttivo, non limitandosi più, quindi, a verificare la difettosità dei prodotti solo alla fine del processo dato che i controlli a tappeto su tutti i prodotti stavano iniziando a rivelarsi troppo costosi. Per effettuare questa nuova tipologia di controlli, si fece sempre più ricorso ai criteri statistici. Esaminando pochi prodotti finiti si riusciva a stabilire, mentre si produceva, se il processo presentava delle irregolarità o meno.

I controlli basati su criteri statistici ebbero la massima applicazione durante la seconda guerra mondiale, quando per l’industria bellica diventò necessario utilizzare in modo massiccio manodopera femminile non specializzata e soggetta, quindi, ad un margine di errore maggiore.

Non si può sottacere che, tra i momenti che più hanno segnato il cammino della cultura della Qualità, vi è, purtroppo, anche la seconda guerra mondiale. Proprio per l'impegno in tale conflitto nasce, negli Stati Uniti, l'esigenza di far rispettare alle aziende private gli standard qualitativi richiesti per le forniture belliche, ciò conduce alla nascita di corsi specifici volti alla formazione di specialisti della qualità e da lì il passo fu breve per la creazione della ASQC, associazione che riuniva gli specialisti della qualità nei diversi settori.


Il Dopoguerra. Anni ’40 e anni ‘50

Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati dal grande impegno dato dal Giappone nel ricercare nuovi strumenti efficaci ai fini della ripresa dalla grave crisi economica seguita alla sconfitta nel conflitto mondiale. (Nella foto Hiroshima distrutta dala bomba)  Lo sviluppo del concetto di qualità che si è avuto in Giappone è stato determinante per la determinazione delle caratteristiche riscontrabili ancor oggi negli aspetti più sostanziali, ma è doveroso ricordare che l’avvio scientifico della visione moderna della qualità è stato dato da alcuni studiosi americani.

In particolare nel 1945, Armand V. Feigenbaum (Nella foto) pubblica un articolo in cui descrive la sua esperienza presso la General Electric e l’applicazione del Total Quality Control e questa è la prima volta in cui vengono associati il concetto di qualità e quello di totalità.

Co Nel 1946 venne fondata la American Society for Quality Control che, in seguito, diventerà la American Society for Quality. (ASQ). Si tratta di una “comunità globale” che riunisce esperti e conoscitori del controllo di qualità. L’associazione si occupa alla promozione di strumenti di qualità e conta più di 80.000 associati. Fondata nel 1946 ha sede a Milwaukee.

In questa sintetica esposizione sulle origini della qualità, un fattore dunque importante è quello "dell'esportazione" dei concetti legati alla cultura della qualità all'esterno degli Stati Uniti d'America e, in particolare, in Giappone. I concetti legati al sistema qualità e gli strumenti che con essa si devono applicare, infatti, erano accompagnati ormai dalla formazione di regole simili a quelle attualmente utilizzate per la costruzione degli odierni manuali. La bontà del sistema utilizzato si rese palese quando le aziende giapponesi decisero di puntare sulla qualità come strumento strategico per il loro rilancio. Proprio la loro determinazione a portare fino in fondo questo obiettivo e, quindi, l'effettiva applicazione dei sistemi adottati, permise la nascita di una diversa immagine dei prodotti giapponesi anche a livello internazionale e, di conseguenza, i noti benefici all'intera economia di quel paese.

Edwards William Deming (a destra nella foto), considerato da molti il fondatore del movimento della qualità e un vero e proprio riferimento nel campo, nel 1947 fu chiamato dal Supreme Command for the Allied Powers (SCAP) per aiutare la preparazione del censimento del 1951 in Giappone. Il suo approccio alla qualità è fondato sulla metodologia scientifica tradizionale e su una grande capacità di comunicare. Divenne famoso tra il 1950 e il 1956 quando si riconobbe in lui uno dei protagonisti dello sviluppo e della ripresa dell’industria giapponese dopo la guerra. E’ di questo periodo la famosa frase “… nulla mi colpì di più dell’impressionante contrasto tra la felicità dei giapponesi e la loro devastazione …”. Egli, invitato dalla Japanese Union of Scientists and Engineers (JUSE), si attivò per insegnare le basi del controllo statistico della qualità, attraverso seminari che ebbero un successo straordinario. Riuscì a trasmettere ai giapponesi il concetto che una maggiore qualità significa costi inferiori. Partecipò, così, al programma dell’NBC “Se i giapponesi ci riescono, perché noi non possiamo?”.

Fu così che Deming iniziò a collaborare con i docenti giapponesi di statistica, entrando in contatto con la cultura giapponese. In quegli stessi anni in Giappone nacque la Japanese Union of Scientists and Engineers (JUSE) con lo scopo di promuovere lo sviluppo e la diffusione del controllo della qualità. La JUSE iniziò a studiare le tecniche di controllo statistico sviluppate negli USA durante la guerra e nel 1949 creò il Quality Control Research Group (QCRG) composto, tra gli altri, dal professor Ishikawa. (Nella foto)

Si può concludere che in questo modo, la qualità, per i Giapponesi, assume il valore di una variabile competitiva e non solo uno strumento di rivalsa agli occhi delle nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale. Certo non si trattava, però, della qualità di prodotti ottenuta secondo i canoni della cultura industriale del tempo ma di una qualità dei processi e della produzione in grado di generare prodotti migliori a costi inferiori. È maturato dunque in quegli anni il “modello giapponese”, antitetico rispetto al modello occidentale, che aveva i suoi limiti nella divisione del lavoro e nell’incapacità di soddisfare la variabilità della domanda. La novità sostanziale più rilevante è che si comincia a pensare che non sia sufficiente il rispetto delle specifiche tecniche, cioè dipendenti dal progetto e dagli impianti, e che sia necessario pensare anche a specifiche organizzative. Iniziò a farsi strada l’idea che le organizzazioni ben strutturate, che attuavano strategie corrette e che applicavano correttamente le procedure, fossero in grado di offrire ai propri clienti un’adeguata confidenza del rispetto di determinate specifiche di prodotto. Cambia l’approccio al problema che passa dall’essere passivo all’essere proattivo e basato non solo sulla rimozione della non qualità ma anche sulla prevenzione degli incidenti attraverso la progettazione e l’applicazione di un Sistema Qualità formale capace di ridurre la possibilità di generare errori. Questo è, in conclusione, il momento in cui si traccia la strada della qualità moderna .

Nella carrellata sui nomi “eccellenti” della qualità non si può non ricordare Philip B. Crosby che fu, oltre che un tecnico della qualità, anche un motivatore e un grande comunicatore tanto che il Time Magazine lo definì “the leading evangelist of quality” . Fu il primo a spiegare la qualità in termini semplici e comprensibili a tutti tant’è che il libro più importante, Quality is free è stato a lungo un best seller editoriale. In questo libro Crosby sosteneva che la qualità fosse un investimento che produce profitto e che andasse gestita, non solo controllata. In un momento in cui Deming e Ishikawa trasmettevano il messaggio che la qualità era qualcosa di strettamente tecnico, Crosby (nella foto) si rivolgeva alla gente con un messaggio semplice: la qualità è troppo importante per essere lasciata al dipartimento del controllo qualità. Nel 1950 Deming, su invito della JUSE, tornò in Giappone per condurre un seminario di 30 giorni dedicato ai manager delle aziende giapponesi. Deming fu talmente felice di collaborare nella trasmissione dei concetti di qualità a queste persone che non chiese alcuna retribuzione. La risposta fu eccellente: spesso fu addirittura necessario allontanare la gente dall’aula. Deming non riusciva a spiegarsi tanto successo dato che, disse, “...non feci molto di più che spiegare cosa deve fare il management...”. Parlando degli analoghi tentativi fatti negli Stati Uniti, lo stesso Deming disse “...durante corsi di 8 giorni chiedevamo all’azienda di mandarci persone del top management ma quella gente non veniva. Alcuni vennero per un solo pomeriggio. Non impari concetti come questi in un solo pomeriggio. Così il controllo della qualità scomparve dalla cultura americana...”.

Ricordiamo ancora che nel 1951, Feigenbaum , con il libro dal titolo “TQC” (Total Quality Control), propone per la prima volta un atteggiamento dell’organizzazione aperto alle esigenze dei clienti e tale da realizzare gli obiettivi della qualità attraverso il coinvolgimento dell’intera struttura aziendale con un approccio basato sulla motivazione delle persone e sul miglioramento continuo dell’intera struttura.



Nel 1954 un altro studioso americano, il dottor Juran, fu invitato in Giappone a tenere dei seminari nei quali spiegò che il controllo della qualità era uno strumento manageriale, una strategia e che come tale doveva essere visto. Nell’arco di 10 anni il JUSE formò quasi 20.000 ingegneri nell’ambito delle metodologie statistiche. In Giappone iniziò a diffondersi una visione manageriale della qualità ed è di questi anni la prima pubblicazione della rivista Hinshitsu Kanri (Statistical Quality Control) e la trasmissione dei primi corsi radiofonici per la diffusione al grande pubblico dei concetti base del Controllo qualità.

L'assicurazione qualità


Negli anni ’50, alcuni settori (aerospaziale, nucleare, petrolchimico, ecc) si chiesero come potessero fare per applicare il concetto di controllo di prodotto, considerando il fatto che per i prodotti di questi settori doveva essere effettuato in tempo reale. La risposta fu quella di affiancare alla specifica tecnica una specifica organizzativa che illustrasse, ad esempio, come qualificare i fornitori, chi dovesse fare cosa, ecc. Era nata così l'Assicurazione Qualità. Per la prima volta si riconosceva che la qualità era il risultato di sforzi congiunti di tutte le funzioni e che ciò che contava era la qualità dei processi aziendali e non più solo quella dei prodotti.



Le prime norme della qualità – Alcune date

Nel 1959 il Dipartimento della Difesa americano emise la prima norma dedicata alla qualità, lo standard militare MIL-Q-9858A "Quality program requirements", primo esempio di normativa che richiedeva un modello organizzativo attinente all'Assicurazione Qualità. Lo standard venne adottato dalla NATO tramite lo sviluppo delle Allied Quality Assurance Publications (AQAP).

Queste norme introducono il principio della prevenzione dei difetti in contrapposizione alla loro individuazione e fissano le basi per discutere per la prima volta di “Sistemi Qualità”.

Nel 1960 venne varata in Giappone la prima campagna nazionale della qualità e si scelse il mese di novembre come mese della qualità.

Nel 1962 nacquero i primi circoli della qualità e si iniziò a parlare di “politiche della qualità”.

Nel 1969 venne organizzata a Tokio la prima International Conference on Quality Control.

Nel 1970 negli USA, nell’appendice B della legge 10 CFR (Code of Federal Regulation) 50, vennero elencati i 18 criteri di riferimento obbligatori per gli impianti nucleari che diventarono il riferimento per tutte le norme del settore.

In questi anni, sulla scia dei 18 principi e seguendo l’obiettivo della standardizzazione, si svilupparono diversi altri standard in tutto il mondo. Tra le tante ricordiamo le norme ANSI americane, le DIN tedesche, le UNI italiane, ecc.


Anni ’70. Una nuova cultura

Negli anni ‘70 Ishikawa favorì lo sviluppo di una nuova cultura che si basò su:

• il sostegno del governo, determinante per consentire lo sviluppo di questo tipo di cultura
• la promozione effettuata da diverse associazioni (Premio Deming, ecc)
• il grande sviluppo dell'attività di normazione e standardizzazione

Questa nuova cultura prese il nome di Company Wide Quality Control (nel resto del mondo si chiamerà, invece, Total Quality Control) e fece suoi, tra gli altri, i seguenti principi:

• l'azienda non è di pochi ma di molti
• bisogna valutare come prima cosa le esigenze dei consumatori
• si deve puntare prima alla qualità e dopo al profitto
• bisogna prevenire i difetti e i reclami
• tutti all'interno dell'organizzazione, vanno formati
• nel processo, l'operatore successivo è nostro cliente, bisogna eliminare le barriere
• bisogna basarsi sui dati

Il Giappone riuscì, puntando sulla qualità dei prodotti e sulla responsabilizzazione dei propri lavoratori, a soppiantare l’egemonia americana, dimostrando che produrre il più possibile senza porre l’accento sugli standard qualitativi, non pagava più. Sono di questi anni le prime evoluzioni dei Sistemi Qualità che possiamo riassumere nei concetti di controllo qualità totale rivolto a tutte le funzioni aziendali e di produzione a zero difetti.

Sempre in questi anni inizia a farsi strada il concetto della qualità intesa come soddisfazione del cliente. Il punto di riferimento, per la prima volta, si sposta da chi produce a chi riceve il prodotto, soppiantando il concetto fordista di prodotto standardizzato e aspirando ad un prodotto che abbia un contenuto qualitativo sempre più elevato a prezzi competitivi.

Nel 1971 in Giappone nacque la Japanese Society for Quality Control i cui membri si impegnarono a promuovere e a favorire studi e ricerche in tema di controllo qualità e le prime organizzazioni furono valutate e certificate conformi agli standard della Difesa e fu istituito un registro per raccoglierle tutte.

Nel 1974 il Giappone, per permettere la produzione anche in un periodo di crisi come quello che fece capo alla crisi petrolifera del 1973, iniziò ad applicare il concetto del just in time e della qualità totale.

I lavoratori non si specializzarono più in poche mansioni elementari ma ebbero più mansioni e una capacità di controllo sul processo produttivo.

I contatti diretti con la clientela assunsero un ruolo preminente, si cercò di venire incontro alle esigenze dei clienti più che di convincerli a comprare un certo prodotto, abbandonando la concezione di produzione standard. La spinta all’innovazione proveniva dalla base. Le scorte di magazzino vennero abolite e venne introdotta la flessibilità dei processi produttivi.

Nel 1979 le British Standards pubblicarono la BS 5750 per i Sistemi Qualità che può essere considerata come la progenitrice delle attuali ISO 9001.

Sempre nel 1979 si istituì il comitato tecnico TC 176 che ha il compito, ancora oggi, di aggiornare le norme della serie ISO 9000.

Anni ’80. La qualità in occidente

A partire dagli anni ’80 le prime aziende occidentali, soprattutto quelle americane, iniziarono a rendersi conto dell’importanza dello sviluppo della qualità per il successo di un’organizzazione.

Nel 1980 una produttrice televisiva, Clare Crawford-Mason, scoprì Deming e lo fece conoscere al grande pubblico trasmettendo in tv un documentario da titolo “If Japan can…why can’t we?” ("Se il Giappone può...perché noi non possiamo?").

La reazione degli Stati Uniti, in posizione precaria rispetto al colosso giapponese, fu immediata. Deming iniziò a lavorare come non aveva mai fatto prima e società come Ford Motor Company e General Motors chiesero la sua collaborazione.

Per la prima volta la qualità non venne vista come un mezzo per risolvere problemi ma come un’opportunità di business.

Nel 1983 la Thatcher pronunciò il famoso discorso nel quale sosteneva che la qualità fosse essenziale per il successo dell’industria britannica.

Nel frattempo, seguendo l’esempio del Giappone, gli USA impararono a dare il giusto peso alla qualità fino a varare nell’83-’84 un Congresso per promuoverla e a promuovere, nel 1986, un vero e proprio piano qualità per le aziende americane (il piano Baldritch) che prevedeva incentivi economici per le organizzazioni che volevano seguire il percorso della certificazione.

E’ sempre negli anni ’80 che vennero emesse a cura dell’ISO le prime norme di riferimento finalizzate alla qualità. Nel 1987, infatti, l’International Organization for Standardization adottò il codice britannico BS 5750 e pubblicò quella che ora è chiamata serie di norme ISO 9000.



Definizione di Qualità


venerdì 11 giugno 2010

Progettare l'organizzazione - dispensa n°1

L'obiettivo è creare idonea conoscenza delle strutture organizzative distinguendo in base agli scopi sociali e alle caratteristiche strutturali della varie realtà. Si parlerà quindi delle società e delle altre forme con brevi riferimenti agli elementi di diritto che presiedono la creazione delle singole persone giuridiche e alle varie procedure amministrative. Ma soprattutto una disamina approfondita sulle modalità di scelta e sui procedimenti razionali che consentono di definire la miglior organizzazione per l'obiettivo che si ha.


Premessa

La nostra analisi parte dalla considerazione che quando gli esseri umani svolgono una qualsiasi attività tendono a perseguire un determinato scopo, cercando altresì di ottenere il miglior risultato impiegando la minor quantità di risorse possibile.

È importante notare che questo l’uomo lo fa sempre, anche nello svolgimento di azioni quotidiane come vestirsi e nutrirsi, infatti queste azioni vengono attuate in modo naturale e senza pensare a ciò che si fa in quanto è ben presente nella mente di ciascuno un modello di riferimento ripetuto con successo un numero indefinito di volte e quindi definitivamente assimilato.-

Con ciò si dimostra che sempre l’uomo si esprime attraverso un progetto cioè cerca di delineare preventivamente quella che sarà la sua azione per evitare l’insuccesso o almeno ridurre l’intensità del rischio.

Se il concetto viene riferito all’azienda, intesa come organismo complesso e condizionato da molte variabili, dove il rischio è continuo e dove ogni errore viene scontato con pregiudizio degli obiettivi, è indispensabile che l’azienda stessa operi, in tutte le sue manifestazioni, impiegando opportune tecniche di progettazione.


Progetto e piano

Capita spesso, nell’ambito delle attività e nel mondo dei servizi, di sentir parlare di progettazione e di pianificazione in modo indistinto come se le due azioni non godessero di una loro propria specificità. Non si intende spendere tempo solo per dissipare una mera questione terminologica, non ne varrebbe la pena, ma non si può non rilevare che anche la chiarezza dei termini impiegati aiuta ad avere chiarezza sulle azioni da compiere in relazione alle singole situazioni.

Allo scopo è possibile partire dalle definizioni da dizionario.

Progettazione : Preparazione di un progetto/ attività del progettare/ideazione di qualcosa

Progetto : studio preparatorio di un’opera o di un’impresa. Insieme di disegni e di calcoli che costituiscono lo studio preparatorio di un’opera. Ciò che si pensa di fare in futuro, cioè è riferito a qualcosa che ancora non c’è.

Pianificazione : programmazione di un’attività secondo un piano prestabilito.

Sostanzialmente il progetto viene approvato e successivamente realizzato, mentre il “piano” ovvero l’attività pianificata, viene realizzata lentamente nel tempo e si realizza attraverso la costruzione di oggetti o la realizzazione di processi con caratteristiche conformi a quanto pianificato.

Come si può comprendere le definizioni derivano dal mondo dell’architettura e dell’urbanistica. In mancanza di analoga precisione nei diversi settori dei servizi possiamo mutuare qualche ragionamento dal mondo delle tecniche architettoniche ed urbanistiche.

Il progetto riguarda l’architettura ed è ciò che deve essere fatto prima della costruzione della casa e con tale costruzione conclude la sua esistenza e ragion d’essere e non deve essere riproposto. Il piano urbanistico tende invece a definire come e dove devono essere costruite le case nel territorio quindi appena varato comincia ad essere attuato e ancor prima della sua conclusione deve essere studiata la sua evoluzione e la successiva edizione.

Dunque, come si è detto, in architettura l’avvenuta esecuzione di un progetto è la costruzione di una casa. Una volta fatta non richiede altro nell’immediato, una riprogettazione sarà necessaria solo dopo un certo tempo, quando la struttura si sarà deteriorata o non sarà più idonea a soddisfare i requisiti richiesti da quanti la abitano. Il progetto serve a realizzare un prodotto e servirà un altro progetto quando il prodotto realizzato non è più rispondente ai bisogni. Questo concetto deve essere applicato a tutti i settori produttivi sia di prodotti che di servizi e a questo ci si attiene nel prosieguo del corso.


Definizione di organizzazione

Progettare l’organizzazione significa attuare dei procedimenti razionali che consentono di definire la miglior organizzazione in relazione ad un obiettivo definito. È intanto evidente che un’organizzazione può essere più o meno adeguata n on in termini assoluti, ma in relazione ad obiettivi determinati; quindi prima di tutto deve essere chiaro l’obiettivo.

Prima di tutto comunque è necessario stabilire quali siano i principali elementi costitutivi dell’organizzazione allo scopo di fissare gli elementi di base a cui sia possibile riferirsi in seguito senza perdere di vista da dove ogni organizzazione trae il suo fondamento.

Una definizione che si può dare è la seguente: “L’organizzazione è un insieme di risorse orientate al persegui-mento di una finalità comune, in un costante rapporto con l’ambiente di riferimento”

Questa definizione, essenziale, ci permette di fissare i fondamentali elementi costitutivi presenti in ogni organizzazione.

Dunque si tratta di due elementi:

• La finalità primaria
• L’ambiente di riferimento

La finalità primaria dell’organizzazione è la sua mission, ovvero la sua ragion d’essere, ciò che assume il valore di priorità assoluta rispetto a tutte le altre variabili che compongono l’organizzazione stessa.

Se dunque la mission è l’elemento fondamentale dell’organizzazione ne consegue che tutto il resto, tutte le altre risorse, sono ad essa subordinate. La mission deve orientare tutto e tutti e ciascuno, nell’ambito dello specifico sotto-obiettivo che gli è stato assegnato deve agire mantenendo costante riferimento all’obiettivo generale escludendo fini personali o particolari che non siano compatibili con la mission.

Cerchiamo ora di scoprire in cosa consiste la mission o finalità primaria dell’organizzazione mettendo subito in evidenza ciò che non è. Non è rappresentata dai prodotti o servizi che fa e neanche l’obiettivo di profitto.

La mission è come un’organizzazione si vuole porre rispetto a uno o più bisogni esistenti in un dato ambiente, ossia la mission è rappresentata dall’utilità che l’organizzazione si propone di offrire a quel determinato ambiente in relazione ad alcuni bisogni presenti. Quindi è chiaro che la mission definisce il rapporto che l’organizzazione si propone di avere col suo ambiente e “rappresenta quell’obiettivo che deve essere perseguito, pena la sopravvivenza dell’organizzazione stessa”

Gli obiettivi di carattere economico o altri sono comunque secondari, nel senso che non potranno di sicuro essere raggiunti se l’organizzazione non sopravvive. Siccome l’obiettivo primario, quello che determina la morte dell’organizzazione se non viene raggiunto, è la mission cioè ciò che l’organizzazione vuole offri tre all’ambiente, è chiaro che non si può prescindere dall’ambiente di riferimento.

È fondamentale evidentemente tenere continuamente sotto controllo la compatibilità della propria mission rispetto alle condizioni ambientali e si deve essere pronti a modificarla se necessario.

Si può dunque dire che l’ambiente è addirittura parte costituente dell’organizzazione, anche se è fuori dai suoi confini fisici, e non solo un elemento di cui tener conto. Quindi per studiare e comprendere i fenomeni di un’organizzazione bisognerà partire dall’osservazione di quel che accade nel suo ambiente e non soltanto al suo interno. Si può concludere che le organizzazioni non possono agire come meglio credono, ma se vogliono raggiungere il loro obiettivo, di profitto o di altro genere, devono determinare una mission concepita in modo da garantire una modalità di costante relazionalità con l’ambiente

Si parla di riposizionamento strategico dell’organizzazione tutte le volte che la mission viene cambiata anche parzialmente e ciò è frutto di una ridefinizione del rapporto con l’ambiente di riferimento.



Finalità primaria - Requisiti

In primo luogo è indispensabile che sia comune a tutti i membri dell’organizzazione. la Finalità Primaria - mission – deve avere alcune caratteristiche imprescindibili:



1. deve essere conosciuta da tutti, quindi l’organizzazione deve impegnarsi a diffondere la propria mission in modo chiaro e costante

2. deve essere compresa da tutti, quindi ciascun membro dell’organizzazione deve impegnarsi a mantenere una costante verifica su quali responsabilità tale mission comporti rispetto al ruolo ricoperto nell’organizzazione così da conoscere sempre quale debba essere il contributo che deve dare per il conseguimento della finalità primaria

3. deve assicurare adesione rispetto alla finalità in quanto l’organizzazione è un mezzo per raggiungere un fine, quindi non ha valore in sé e l’adesione può esserci solo se c’è condivisione del fine.

domenica 6 giugno 2010

La gestione dell'anziano incontinente in RSA

Dalla scelta del sistema di gestione della perdita involontaria di urine alla definizione delle manovre igieniche

La dispensa è curata e gentilmente messa a disposizione da

Marco Gozzi
Caposala ASL 7 Siena
OSPEDALE DI COMUNITA' E HOSPICE
DI POGGIBONSI (SIENA)


Riporta gli argomenti trattati nel corso accreditato ECM tenutosi a Castelvetro (PC)  3 Giugno 2010

Marco Gozzi durante la lezione a Castelvetro







INDICE

1. Introduzione
2. L’incontinenza urinaria
3. I sistemi di raccolta
4. La scelta dei diversi presidi assorbenti
5. Perché parlare di igiene personale
6. Breve storia delle consuetudini Igieniche
7. La cultura dell’organizzazione e la risposta della struttura residenziale al bisogno di igiene degli ospiti
8.Protocolli assistenziali:inquadramento concettuale
9.L’igiene personale dell’anzianoin RSA:
    la pulizia della cute
    la programmazione dell’intervento
10. Bibliografia



Introduzione

L'aumento progressivo e imponente del numero delle persone molto vecchie, con molteplici patologie e con molteplici bisogni è destinato a porre ai servizi socio- sanitari domande sempre più pressanti; l’invecchiamento della popolazione, oltre a costituire una forte “chance individuale”, rappresenta difatti un’enorme sfida collettiva.

Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi europei, un forte sviluppo delle politiche e dei servizi sociali rivolti alla persone anziane: basti pensare allo sviluppo dei servizi domiciliari e delle strutture residenziali specifiche o l’implementazione delle “carte dei diritti” degli utenti dei servizi. Tali politiche e servizi hanno comportato non solo l’emergere di nuove figure professionali, ma anche un forte rinnovamento delle pratiche professionali dei diversi operatori, la cui formazione deve però affrontare ancora alcuni nodi problematici di particolare rilievo, quali la “complessificazione” dell’utenza, la trasformazione delle RSA da strutture rivolte a persone spesso ancora autosufficienti, a servizi destinati quasi esclusivamente ad anziani non autosufficienti, l'attenzione alla qualità del servizio offerto.
Il tema della qualità delle cure prestate agli anziani istituzionalizzati è divenuto, negli ultimi anni, particolarmente dibattuto sia tra coloro che operano nei servizi per la terza età che nell’ambito politico gestionale dell’assistenza socio-sanitaria. Questo fatto è dovuto a diversi motivi, tra i quali, quelli maggiormente evidenti sono:

• Le dimensioni numeriche del fenomeno (l’aumento dell’età media di vita e di conseguenza del numero di persone molto anziane si riflette in un maggior ricorso all’ istituzionalizzazione);
• Le condizioni di salute degli anziani ospitati nelle RSA ed il loro grado di complessità assistenziale (i progressi della scienza medica-farmacologica e le precoci dimissioni ospedaliere dovute all’introduzione del metodo di finanziamento degli ospedali con i DRG, costringono gli operatori confrontarsi con problemi sanitari sempre più numerosi e complessi);
• La necessità delle strutture di essere accreditate;
• Le diverse aspettative degli utenti;
• La presa di coscienza di molti operatori del settore che la mission dei servizi non è semplicemente quella di custodire un anziano che non può essere assistito al suo domicilio, ma quella di accoglierlo e dare delle risposte efficaci ai suoi effettivi problemi, in modo che possa conservare, per quanto possibile, il massimo grado di salute consentito dalle sue condizioni psico-fisiche.

Per molti care givers istituzionali inoltre, è divenuto sempre più impellente la necessità di dare un senso al proprio lavoro, svolto di per se in una dimensione molto particolare, e che, comunque la si veda, contempla spesso la morte come evento frutto dell’incontestabile realtà dell’evoluzione temporale del processo di invecchiamento.

Garantire una buona qualità dell'assistenza agli anziani rientrando nei budgets a disposizione è oggi probabilmente uno dei maggiori problemi tra i tanti che i sistemi socio-sanitari si trovano a dover affrontare anche alla luce delle crescenti aspettative dei cittadini utenti e delle incertezze relative alla dimensione delle risorse utilizzabili. Noi tutti infatti, abbiamo sicuramente aspettative di qualità dell'assistenza, che non deve essere "abbastanza" buona, ma deve essere "eccellente".

L’implementazione della qualità è il risultato:

 della ridefinizione e della massima condivisione della mission della RSA, che deve essere incentrata, come già ricordato, non tanto sulla custodia dell’anziano, quanto su progetti che mirino a far giungere gli assistiti al termine della loro esistenza nelle migliori condizioni di autonomia effettivamente permesse dalle loro condizioni psicofisiche;
 dell’applicazione di tecniche assistenziali riabilitative e rieducative validate e progettate in modo multidisciplinare per ogni utente;
 all’applicazione di idonee strategie formative;
 all’applicazione di una costante attività di controllo;
 all’applicazione di una costante attività di valutazione.

A mio modo di vedere, questo tipo di impostazione culturale, oltre che suffragato da alcune nuove tendenze legislative (vedi più avanti), è perfettamente condivisibile non soltanto dal punto di vista etico e deontologico, ma anche dal punto di vista economico-organizzativo: investire il tempo di assistenza in attività di recupero e mantenimento funzionale degli ospiti delle RSA è, nel medio e lungo periodo, un investimento destinato a dare buone soddisfazioni in termini:

(a) di riduzione dei costi;
(b) di aumento del comfort e della soddisfazione degli ospiti;
(c) di incremento della motivazione del personale (che provoca di riflesso un aumento della produttività ed una diminuzione del burn-out, dei conflitti e dei fenomeni di bunning);
(d) di aumento dell’immagine della struttura, fattore questo di particolare rilevanza per le RSA a conduzione privata.

Questa diversa filosofia di intendere la care degli anziani istituzionalizzati richiede però l’aggiunta di nuovi e diversi contenuti tecnici e relazionali nell’agire quotidiano, di annotare nelle valutazioni non soltanto i deficit funzionali ma anche i punti di forza (su cui basare la relazione di aiuto), di adottare strumenti gestionali in grado di creare un clima organizzativo che permetta di trasferire nella realtà le enunciazioni di principio, di avvalersi della tecnologia e dei nuovi prodotti offerti con sempre maggior intensità dal mercato.

Dal punto di vista filosofico l'assistenza all'anziano deve essere declinata in modo in un po' diverso rispetto dall'agire quotidiano che viene esperito nei corsi di formazione universitaria e non: a questo proposito un buono spunto di riflessione sono gli scritti di Madeleine Leinenger:
“Quello di cui le persone hanno più bisogno per crescere, rimanere in salute e sopravvivere o affrontare la morte, è dell’umanizzazione dell’assistenza .L’assistenza è l’essenza dell’infermieristica, ne è il cuore e l’anima e rappresenta quello che di più la gente cerca nell’infermiere e nei servizi sanitari. Gli infermieri allora devono acquisire conoscenza dei valori, delle credenze, e delle forme di assistenza espresse nelle varie culture e mettere a frutto tali conoscenze per prendersi cura delle persone sane e dei malati". (“La teoria della Assistenza Culturale, diversità ed universalità dell’assistenza" di M.Leininger).

Naturalmente in questa ottica dobbiamo sottolineare che non solo occorre differenziare l'obiettivo dell'assistere in base alle culture, credenze e valori, ma anche in funzione delle diverse fasi della vita. Un piano di assistenza perfetto dal punto di vista clinico e scientifico può infatti non essere adatto per essere applicato su una persona anziana, per la quale sono da considerare le condizioni di disautonomia e comorbilità, ma anche la prognosi, l'obiettivo massimo raggiungibile e la durata della vita redsidua.

“...l’incontro tra l’operatore sanitario ed il paziente rappresenta il concretizzarsi dell’incontro tra diverse visioni del mondo che comunemente determinano imbarazzi, disagi,diffidenze, rigidità e senso di profonda frustrazione. La teoria della Culture Care sostiene ed incoraggia gli infermieri ,durante l’operatività quotidiana a trovare uno spazio interiore, e non solo interiore, da dedicare alla comprensione reciproca. L’assistenza così diventa una transazione uno scambio di valori del Care per socializzare e conoscere i fattori che influenzano i modi di fornire e ricevere assistenza.(“La teoria della Assistenza Culturale, diversità ed universalità dell’assistenza" di M.Leininger)

La qualità dell'assistenza fornita agli aspiti delle RSA è quindi il risultato finale di un complesso intreccio di fattori che riassumono le capacità di gestione di un sistema socio-sanitario-assistenziale fatto di razionalità nell'utilizzo delle risorse, competenza nell'applicazione delle conoscenze scientifiche e delle innovazioni strumentali, fatto di aspettative degli utenti e loro familiari, fatto dal rispetto della legislazione in atto e, non ultimo, fatto dalla capacità e dai comportamenti degli operatori, chiamati a scelte operative giuste ed efficaci.

Dentro la tematica generale della qualità dell'assistenza in RSA coesistono non solo i temi relativi all'appropriata erogazione di interventi efficaci sotto il profilo clinico-assistenziale, ma anche organizzativo: si dovrebbe infatti orientare il contesto assistenziale nell'ottica della disciplina geriatrica, che comprende non solo tecnologia e regole ma anche umatità, solidarietà, comprensione e relazione: la considerazione dell'importanza della dimensione etica e della dimensione umana dell'approccio alla cura degli anziani accolti nei presidi residenziali ne rappresenta infatti uno degli aspetti più qualificanti.

L'appropriata erogazione di interventi efficaci obbliga a passare da una organizzazione basata sulle funzioni, sulla routine e sulla prassi, ad una organizzazione basata sulla definizione in modo personalizzato dei bisogni assistenziali da garantire, intervenendo in maniera diversa laddove gli obiettivi di cura siano diversi, permettendo alla struttura di erogare servizi giusti nel momento giusto, applicando, attraverso strumenti quali linee guida, protocolli e procedure, le conoscenze attualmente disponibili e documentate.

Tutto ciò naturalmente facendo i conti con gli inevitabili vincoli imposti dalle non infinite risorse e, di conseguenza, mantenendo la sostenibilità del sistema.

Questo lavoro nasce appunto con lo scopo di proporre una serie di indicazioni per migliorare la risposta assistenziale agli ospiti incontinenti e per migliorare le attività di igiene personale, che devono essere necessariamente rese tenendo conto sia della valutazione del grado di disabilità sia dell’individualità dell’anziano, e che devono essere inserite nel contesto più generale degli obiettivi del piano di assistenza di ogni ospite.

La struttura della relazione, oltre ad una breve descrizione dell’incontinenza e dei relativi principi assistenziali, verte soprattutto sull’organizzazione della risposta al bisogno di igiene personale degli ospiti delle RSA, con particolare riferimento alle caratteristiche dei diversi prodotti detergenti, del loro uso e delle procedure per assicurare la corretta applicazione dei principi assistenziali.



L’incontinenza urinaria

L’incontinenza urinaria è “una condizione nella quale la perdita involontaria di urina rappresenta un problema sociale od igienico e sia effettivamente dimostrabile” (International Continence Society, 1990). Affligge milioni di persone in tutto il mondo: si stima infatti che dal 15 al 30% di tutti gli ultrasessantacinquenni (Agency for Healt Care Policy and Research, 1992) (1) ne siano affetti. L’evento “incontinenza” è quindi molto più frequente di quanto si pensi (tutti gli autori sono concordi nell’affermare che le statistiche di incidenza e prevalenza sono ampiamente sottostimate); è una situazione altamente invalidante che induce notevole ansietà e frustrazione per il paziente, e che, oltre a comportare un cospicuo onere assistenziale per le famiglie e per il personale di assistenza nelle strutture di ricovero, implica un pesante costo economico per la collettività. L’incontinenza ha inoltre un impatto fortemente negativo sulla vita quotidiana della persona che ne è affetta: la paura di bagnarsi, il disagio legato all’odore, il fastidio e le irritazioni cutanee provocate da sistemi assorbenti l’urina di bassa qualità, troppo ingombranti o che “frusciano” durante i movimenti, provocano ripercussioni negative sullo stato di salute complessivo, nelle relazione sociali e nella qualità di vita.

L'incontinenza vescicale è frequente nelle persone anziane, e la probabilità di essere presente aumenta con l'aumentare dell'età a causa di:

1) declino della capacità vescicale;
2) aumento del volume residuo;
3) presenza di contrazioni involontarie della vescica;
4) diminuzione del trofismo uretrale;
5) maggiore frequenza di problemi cognitivi.

Giova ricordare in questa sede che comunque la perdita di controllo sulla vescica non è assolutamente una situazione che riguarda solo gli anziani: dalla stessa stima dell’AHCPR già riportata, risulta che, tra le persone di età compresa fra i 15 ed i 64 anni la prevalenza di incontinenza oscilla tra l’1,5% ed il 5% negli uomini e tra il 10% ed il 25% nelle donne.

Fare chiarezza sulla definizione di questa condizione patologica è molto importante, in quanto molti la considerano, a torto, parte normale del processo di invecchiamento, evitando di porre la dovuta attenzione alle fasi di diagnosi, di classificazione, di terapia e di eventuale recupero. L’incontinenza colpisce in modo diversificato:può essere infatti lieve, modesta o grave a seconda della quantità e della frequenza dei singoli episodi di perdita di urine; può essere inoltre una condizione transitoria (dovuta ad esempio ad infezioni della vescica e/o delle basse vie urinarie, a fecalomi, all’uso di alcuni farmaci, a stati confusionali, a cateterismo vescicale recente, ecc.) o definitiva (demenza, lesioni midollari, diabete, atrofia della mucosa uretrale, ictus cerebrale, ecc.). Inoltre la perdita di urina si può verificare con tracimazioni piccole e frequenti dalla vescica (come avviene nell’incontinenza da stress o nell’iscuria paradossa), oppure con poche ma abbondanti emissioni (come avviene nell’incontinenza da urgenza).


I sistemi di raccolta

“Dare a ciascun paziente l’insieme degli atti diagnostici e terapeutici che gli assicureranno il risultato migliore in termini di salute, in conformità allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, al costo migliore a parità di risultato, al minor rischio iatrogeno e orientato alla maggiore soddisfazione possibile per le procedure, i risultati ed i contatti umani ricevuti dall’organizzazione sanitaria”. Così l’Organizzazione Mondiale della Sanità esprime il concetto di qualità: ed è in questa ottica che gli operatori dei diversi settori devono affrontare i problemi degli utenti.

Per fare fronte alle perdite involontarie di urina, che abbiamo visto si possono presentare sotto molteplici aspetti, possono essere utilizzati diversi sistemi

1. Urocontrol (o guaina o profilattico);
2. Catetere vescicale (intermittente ed a permanenza);
3. Presidi assorbenti;

Naturalmente l'utilizzo di tutti questi sistemi non può prescindere dall'attuazione di soluzioni per limitare la quantità di urina involontariamente dispersa, o quantomeno di regolarne il flusso:

 Stimolazione all'uso del bagno anche con programmi di toilette training;
 Interventi sulla somministrazione della terapia;
 Interventi sull'intake di liquidi.
 Interventi per la prevenzione della stipsi.

Qualsiasi sia la procedura utilizzata per limitare i problemi relativi alla perdita involontaria di urina, vi sono tuttavia delle norme generali di attività che potremmo riassumere:

 Impedire danni iatrogeni;
 Approccio incentrato su:
    - educazione;
    - rispetto;
    - informazione;
    - cura della privacy;
 Uso elettivo del bagno

Di solito nell'assistenza geriatrica, in assenza di lesioni cutanee perineali o sacrali, si ricorre ai presidi ad assorbenza monouso, che garantiscono un più basso livello di problemi secondari e una maggior versatilità di utilizzo:difatti l'utilizzo del condom pone diversi problemi di ordine anatomico, igienco e di gestione della guaina, mentre il cateterismo vescicale, particolarmente abusato nelle sezione ospedaliere anche per la gestione dell'incontinenza, provoca diversi problemi iatrogeni, non ultimo la seria probabilità di sviluppare infezioni del tratto urinario.

Riassumiamo schematicamente le raccomandazioni per la gestione del cv a permanenza nellapersona anziana:

Inserimento:

• Catetere tipo Foley calibro 14-16 Ch inserito dopo un accurato lavaggio delle mani con procedura sterile. Nel maschio utilizzare abbondante lubrificante anche all'interno dell'uretra oltrechè direttamente sulla punta del catetere;
• gonfiare il palloncino con 6-8 ml di soluzione fisiologica;
• applicare sistema di drenaggio chiuso o aperto a seconda delle circostanze;
• l'intervallo di cambio varia a seconda del materiale e varia da 15 a 30 giorni.
• indipendentemente dal tipo di materiale, l'intervallo di cambio deve essere più breve se sulla punta del catetere rimosso si trovano concrezioni.

Gestione quotidiana:

• disconnetere la sacca di drenaggio solo per sostituirla, non utilizzare mai tappi;
• mantenere il sistema di drenaggio sempre in posizione declive;
• la “ginnastica vescicale” non solo è inutile ma anche potenzialmente dannosa.
• Se è necessario chiudere temporaneamente il sistema (esempio per raccogliere un campione di urine), utilizzare una pinza da applicare sul tubo della sacca;
• stimolare l'utente all'ussunzione di liquidi in modo da avere una diuresi giornaliera di almeno 1500ml;
• non programmare lavaggi vescicali a meno che non vi siano segni di sanguinamento o urine purulente o detriti fibrinosi.

Gestione delle problematiche più frequenti:

• ostruzione: sostituire il cv ed aumentare l'apporto idrico;
• fuoriuscita di urina fra la parete esterna del catetere e l'uretra: può essere causata dall'ostruzione del cv vedi sopra) o dall'iperreflessia detrusoriale (causata dalla stimolazione abnorme delle terminazioni sensitive detrusorialida parte del catetere e della flogosi della parete): ridurre il calibro del cv ed ilvolume del palloncino. Se non sufficiente avvisare il medico che prevederà un'eventuale terapia con antibiotici o farmaci anticolinergici;
• infezione urinaria:trattare solo se sintomatica con terapia antibiotica. Prima di effettuare una urinocultura sostituire sempre il cv per evitare l'effetto confondimento dovuto ai batteri saprofiti che colonizzano la parte interna o esterna del cv stesso;
• lesioni uretrali:accurata pulizia quotidiana delle incrostazioni e secrezioni della parte esterna del cv e del meato uretrale. Evitare danni da trazione del sistema.

Rimozione del catetere vesciocale:

• controllare dopo 4-6 ore il residuo post-minzionale, se presente passare al cateterismo intermittente


Sistemi assorbenti monouso

Nel corso degli ultimi 15-20 anni i prodotti assorbenti si sono notevolmente diffusi nella prassi assistenziale. Parimenti alla loro diffusione si è verificato un grande sviluppo non solo nelle forme, ma anche nella capacità assorbente e nel comfort per rispondere alle diverse necessità di ogni utilizzatore. L’uso di polimeri assorbenti, rivestimenti gas permeabili (e quindi traspiranti), molecole anti-odore e materiali anallergici hanno fatto di questo prodotto un vero e proprio concentrato di tecnologia. La quantità delle diverse soluzioni possibili pone quindi i care givers nella condizione di scegliere il giusto prodotto per ogni necessità: ma quali criteri adottare per essere certi di utilizzare il sistema assorbente più efficace e nello stesso tempo più adatto alle diverse necessità dell’utilizzatore?

Come è fatto e quanti tipi ce ne sono.

Tecnicamente un pannolino è composto da diversi strati (figura 1):









Figura 1: sezione di un ausilio ad assorbenza per incontinenti del tipo “pannolino mutandina”



Partendo dall’interno si trovano:

1. Filtrante in Tessuto Non Tessuto: fibra in polipropilene che deve essere inerte, atossica e ipoallergenica poiché è a diretto contatto con la cute dell’utilizzatore; racchiude il materiale assorbente (fluff) a cui trasmette i liquidi con cui entra in contatto. Nei migliori prodotti isola la cute dalla parte assorbente (e quindi bagnata) ed ha una alta permeabilità, in modo da accelerare la velocità di assorbimento, requisito fondamentale per la corretta tenuta del presidio.

2. Ovatta sintetica: è uno strato in fibra speciale che serve ad aumentare la velocità di acquisizione (assorbenza) e rendere più asciutta la superficie a contatto con la cute.

3. Polpa di cellulosa: materia prima naturale ottenuta dalla lavorazione della cellulosa del legno con procedimenti di tipo chimico e/o termo-meccanico. Esistono varie tipologie di polpa, che differiscono principalmente per la struttura delle fibre che la compongono. Dato che la struttura della fibra influenza la velocità di acquisizione, la distribuzione e la ritenzione dei liquidi, nei prodotti migliori, per ottimizzare la performance, è presente in doppio strato: quello superiore costituito da fibre che assorbono più velocemente, quello inferiore costituito da fibre con maggior ritenzione e con maggiore capacità di distribuirsi per tutta la grandezza del “materassino” (parte assorbente del pannolone).

4. Polimeri Super Assorbenti: molecole atossiche di poliacrilato di sodio in granuli ad alto potere gelificante. Trasformano il liquido delle deiezioni in gel, impedendo il riflusso in superficie. Un grammo di PSA riesce a gelificare circa 55gr. di liquido. Sono la componente più importante ai fini della capacità di ritenzione (quantità di liquido che un pannolone riesce ad assorbire). Inoltre riducendo l’urina in gel riducono la proliferazione batterica e, opportunamente trattati, l’insorgenza di cattivi odori. Non devono stare a contatto con la cute perché hanno pH basico. Inoltre per risultare efficaci non devono essere “ammucchiati” in zone circoscritte, ma ben miscelati con la polpa.

5. Polietilene: film plastico con funzione di barriera esterna contro le fuoriuscite di liquidi. Dato che è impermeabile ai liquidi ed all’aria, impedisce la corretta traspirazione della cute, per questo sono sempre da preferire i pannoloni sagomati rispetto a quelli a mutandina (che hanno una maggiore superficie cutanea coperta da questa membrana). Costituisce la parte più esterna e può essere utilizzato sia per differenziare il colore (allo scopo di rendere più semplice l’identificazione della taglia e del livello di assorbenza), sia per veicolare informazioni attraverso gli indicatori di cambio, che si evidenziano quando il pannolino ha esaurito la sua capacità di ritenzione. Vi sono oggi sul mercato dei pannolini che hanno questo strato costituito da un rivestimento traspirante, che assicura l’impermeabilità ai liquidi e la permeabilità ai gas, consentendo una maggiore traspirabilità cutanea.

6. Barriere contro le perdite: possono essere laterali, circolari o antero posteriori, sono realizzate tramite sistemi elastici, in polietilene od in TNT. Per evitare perdite laterali di liquidi devono essere molto efficaci.

7. Elastici: servono a migliorare la fisioanatomicità del pannolone, rendendolo più confortevole e stabile. Possono essere presenti in zona inguinale, addominale o lombare: devono essere in gomma sintetica, o comunque privi di lattice naturale, che non è ben tollerato da alcuni pazienti.

8. Adesivi: sono presenti solo su certe tipologie di pannoloni e devono essere riposizionabili ma con tenuta persistente ed atossici. Nei moderni pannoloni sono sostituiti da fascette in “velcro” che offrono una migliore riposizionabilità, non perdono efficacia se umidi, e, fattore di primaria importanza, non aderiscono ai guanti del care giver.

A seconda del tipo di incontinenza, delle abitudini e delle condizioni dell’utilizzatore, sono necessari sistemi assorbenti diversi, che differiscono per design, per capacità assorbente e per costo. E’ stato dimostrato che circa il 30% delle forme di incontinenza urinaria è dovuto a cause iatrogene, ambientali o all’utilizzo di prodotti ad assorbenza impropri e/o usati in maniera incongrua: inoltre circa il 60% dei casi sono suscettibili di miglioramento(2), ed è dovere di ogni professionista sanitario utilizzare dei prodotti assorbenti che permettano un adeguato trattamento riabilitativo (che permettano quindi anche l’uso del bagno in modo semplice e veloce e non provochino regressione nel soggetto incontinente).

Naturalmente ogni pannolone è disponibile con vasti assortimenti di taglie e capacità assorbente. Il costo di solito è direttamente proporzionale alla capacità di assorbenza, alla taglia ed alla difficoltà di costruzione. Per questo motivo è sempre indicato un utilizzo ponderato dei sistemi a massima assorbenza o di taglia molto grande.



La qualità degli ausili assorbenti l’urina.

La qualità di un pannolone (norme ISO 15621 del 1999 e ISO 16021 del 2000)(3)(4) si valuta essenzialmente osservando 3 fattori:

1. PERFORMANCE TECNICA (quantità di liquido massimo ritenuto, velocità di assorbenza, capacità di mantenere la cute asciutta );

2. COMFORT (comodità e discrezionalità per l’utilizzatore);

3. PRATICITA’ (facile da utilizzare per l’utente e per i care givers).

Vi sono altre caratteristiche da tenere presenti che non sono certo secondarie:

• Non provocare danni iatrogeni (sensibilizzazione, macerazione cutanea);
• Annullare i cattivi odori;
• Possedere indicatori di cambio (in modo da utilizzare completamente la capacità assorbente ed ottenere, attraverso un uso più razionale, un risparmio sui costi diretti e sul carico di lavoro dell’équipe assistenziale);
• Possedere il codice colore (in modo da identificare velocemente taglia e capacità assorbente);
• Essere prodotti da una azienda in grado di formare gli utilizzatori, i familiari ed i care givers e di assicurare il controllo dei consumi e la gestione dei costi;
• Avere un costo proporzionale alla effettiva qualità (rapportare il costo al pezzo con il numero e la qualità dei pezzi utilizzati).

Perché scegliere?

Motivare alla scelta del miglior prodotto assorbente possibile per ogni persona incontinente non è sempre semplice, soprattutto all’interno delle istituzioni a carattere residenziale per anziani non autosufficienti come le RRSSAA: le strategie di reclutamento, il basso grado di attenzione alla formazione ed all’aggiornamento del personale ed una organizzazione del lavoro pesantemente condizionate dalla rassicurante routinaria ripetizione quotidiana dei medesimi gesti portano ad utilizzare i prodotti assorbenti in modo incongruo, soprattutto perché di solito viene usato il pannolino a mutandina (spesso di taglia grande) nella errata convinzione che un “pannolone grande” serva a contenere una “incontinenza grande”.

In verità occorre riflettere su tre particolari aspetti:

1. Negli ultimi anni la modificazione della mission dell’assistenza sanitaria e la maggiore tendenza da parte del SSN ad assicurare servizi di qualità, impone agli operatori di considerare in modo diverso l’organizzazione delle cure da erogare. Inoltre le aumentate aspettative da parte dei cittadini di avere delle risposte assistenziali sempre più personalizzate obbligano gli operatori stessi alla ricerca di soluzioni assistenziali sempre più aderenti alle reali necessità degli assistiti. Anche il PSN esplicita al suo interno la necessità di personalizzare gli interventi assistenziali “..adottando soluzioni che rispondano a criteri di efficacia, economicità ed umanizzazione.”(5)

2. L’incontinenza si può presentare con caratteristiche molto diverse da un caso all’altro, ed è necessario valutare attentamente queste caratteristiche per non dare risposte assistenziali incongrue deleterie per l’assistito.

3. La persona incontinente, soprattutto se anziana, è statisticamente maggiormente a rischio per l’insorgenza di molteplici complicazioni che possono riguardare sia la sfera psico-sociale (depressione, isolamento, ansia, frustrazione) che la sfera fisica (deficit sessuali, infezioni delle vie urinarie, malattie cutanee, lesioni da compressione). Poter garantire ad ogni incontinente una gestione individuale ottimale del suo problema permette sicuramente di diminuire queste complicanze, aumentandone la qualità di vita e diminuendo gli sprechi di risorse.

4. Il pannolone entra a contatto con la cute. Concettualmente quindi si dovrà utilizzare il presidio più piccolo tra quelli in grado di fronteggiare la perdita di urine.

Come scegliere?

Nei confronti di un incontinente autosufficiente il dovere di ogni operatore è quello di facilitare la scelta del prodotto ad assorbenza più idoneo (che consenta facilmente l’uso del bagno, una assoluta sicurezza di evitare le perdite, una efficiente discrezionalità), mettendo in atto soprattutto un intervento educativo che deve essere rivolto non solo alla presentazione dei vari prodotti presenti sul mercato, ma anche alle possibili soluzioni ambientali, farmacologiche, chirurgiche o riabilitative. A questo proposito alcune aziende produttrici di sistemi ad assorbenza per incontinenti offrono anche servizi di consulenza con Infermieri formati per gestire esclusivamente questo problema (sull’esperienza anglosassone dell’Incontinence Advisor).

Per la scelta del miglior ausilio assorbente per l’utente non autosufficiente devono essere fatte alcune considerazioni. L’erronea convinzione che l’incontinenza sia un corollario inevitabile dell’età avanzata o addirittura una situazione ineluttabile, ha spesso fatto si che, soprattutto all’interno degli Istituti di assistenza per anziani non autosufficienti, la valutazione del segno/sintomo “perdita involontaria di urina” fosse una semplice rilevazione della sua presenza. Negli ultimi anni, un maggior approfondimento di questo problema ha portato all’attenzione dei care givers istituzionali la necessità di una valutazione mirata orientata a definirne le cause, ad identificarne le forme transitorie ed a definire il tipo e la gravità delle forme stabili.

La grande varietà di condizioni sotto la cui forma si può manifestare l’incontinenza e l’eterogeneità delle persone che ne sono colpite, consente solo parzialmente di elaborare precise procedure di utilizzo dei prodotti ad assorbenza; inoltre ci sono notevoli differenze tra i presidi, anche analoghi, prodotti da aziende diverse, senza considerare che ci sono talvolta oggettive caratteristiche anatomiche che non consentono l’utilizzo ottimale del presidio di elezione per quella determinata forma di incontinenza.

Dobbiamo comunque affermare che lo schema di approccio alla scelta dell’ausilio assorbente deve essere basato essenzialmente:

I. Valutazione della persona e del tipo di incontinenza;
II. Scelta del presidio e verifica della sua efficacia.

Queste due fasi non devono essere considerate distinte, ma continuamente interagenti tra di loro.

Prima di procedere all’approccio valutativo è però necessario, da una parte creare le condizioni organizzative per poter modificare gli schemi assistenziali, e dall’altra formare ed aggiornare il personale addetto.

La valutazione, è finalizzata in questa fattispecie a:

a) Confermare la presenza di incontinenza urinaria: vi sono infatti diverse situazioni, come ad esempio la contenzione fisica, la sedazione, la permanenza eccessiva e la errata gestione di cateteri vescicali, servizi igienici distanti dalle camere di degenza, la difficoltà nel riconoscere, soprattutto la notte, l’esatta ubicazione dei bagni, la carenza di personale per accompagnare gli anziani al bagno, che sono vere e proprie forme di incontinenza indotta da correggere non certo, o non solamente, con idonei prodotti assorbenti;
b) Definire il tipo di incontinenza;
c) Identificare le condizioni di incontinenza reversibile;
d) Definire le caratteristiche della perdita involontaria di urina attraverso l’utilizzo di schede minzionali. La compilazione di queste schede per un periodo di tre-sette giorni attraverso la registrazione dei dati circa l’assunzione di liquidi, la minzione (ora e quantità di urina emessa) ed il numero degli episodi di perdita involontaria di urina, oltre a fornire validi indizi sulle cause, rappresenta il più valido aiuto nella scelta del presidio ad assorbenza più adatto al soggetto.

Naturalmente la valutazione deve riportare solo notizie effettivamente rilevate e non desunte dalle apparenze; inoltre i valutatori devono essere addestrati per eliminare eventuali differenze nel dare lo stesso significato ai termini usati nella valutazione stessa.

La scelta del presidio e la verifica della sua efficacia deve essere svolta con molta attenzione poiché ha pesanti riflessi sia sul carico di lavoro dell’équipe assistenziale sia sul costo complessivo (diretto ed indiretto) della gestione dell’incontinenza.

Nelle forme reversibili, oltre che una particolare attenzione alle misure terapeutiche, deve essere fatta molta attenzione alla programmazione delle opportune misure riabilitative (ad esempio la toilette training): l’uso del bagno deve essere facilitato in ogni modo, attraverso, a seconda dell’entità delle perdite di urina, l’utilizzo di pannolini per l’incontinenza leggera (comodi soprattutto quelli muniti di adesivo che, aderendo agli indumenti intimi dell’utilizzatore, non cadono per terra o peggio all’interno del WC quando la persona usa i servizi igienici) oppure con l’adozione degli innovativi pannolini a cintura (belt-pad: vedi più avanti, oppure ancora con i pannolini sagomati (disponibili con diversi gradi di assorbenza identificati attraverso il codice colore) che vengono utilizzati con delle mutandine a rete che servono per tenere in sede pannolone ma che consentono alla persona incontinente di abbassarle velocemente quando viene portata in bagno.

Nelle forme di incontinenza irreversibile l’utilizzo del pannolino mutandina classico sta celermente cedendo il passo al pannolino sagomato e sempre più spesso al pannolino a cintura, che essendo disponibili con diversi gradi di assorbenza sono i presidi che meglio si adattano alle diverse necessità degli utilizzatori. Inoltre questi due tipi di ausili sono mediamente più assorbenti, più confortevoli e meno ingombranti rispetto al pannolino mutandina classico, che ha una superficie plastica a contatto con la cute degli ospiti molto più ampia, provocando così un maggiore riscaldamento cutaneo creando disagio (da qui certi casi di manomissione dei presidi assorbenti) e possibilità di sviluppo di lesioni cutanee. Altro svantaggio di questo tipo di ausilio è che non consente l’utilizzo del bagno (o lo consente in modo molto macchinoso). Inoltre provoca negli utilizzatori una sorta di regressione, per cui dopo pochi giorni di utilizzo l’incontinenza diventa grave ed irreversibile anche partendo da situazioni meno gravi. Le uniche indicazioni a tutt’oggi per il suo utilizzo sono: l’incontinenza doppia con feci non formate, l’effettiva difficoltà di indossare le mutandine elastiche di fissaggio dei pannolini sagomati a causa di contratture articolari diffuse oppure la presenza di un pannicolo adiposo pendulo tale da non consentire l’utilizzo del nuovo pannolino a cintura (belt-pad). Questo innovativo ausilio assorbente, recentemente comparso sul mercato è molto innovativo: coniuga infatti i vantaggi del pannolino sagomato con la praticità del monopezzo (non necessita di mutandine a rete, ma resta in sede tramite una cintura addominale); inoltre molto innovativo è anche lo strato esterno impermeabile, non in plastica ma in TNT e PE, miscela di materiali che associa un minore riscaldamento cutaneo e una maggiore traspirazione cutanea ad una maggiore vestibilità e comfort per l’utilizzatore; consente inoltre in modo semplicissimo l’uso del bagno con un pratico sistema di chiusure a velcro.

Abbiamo visto quindi che per una scelta accurata del giusto presidio ad assorbenza si dovranno considerare le condizioni della persona incontinente, le sue possibilità di recupero della normale funzione vescicale, le caratteristiche della sua incontinenza e le caratteristiche dei prodotti a disposizione in magazzino. Naturalmente influiscono sulla scelta anche le necessità organizzative della struttura: il numero di operatori presenti nei diversi turni giornalieri, la tipologia architettonica della struttura ed il carico di lavoro complessivo, anche se tutta l’attività dovrebbe tendere alla migliore soddisfazione possibile delle necessità dei pazienti.

Frequenza di cambio.

Fermo restando il cambio del mattino in contemporanea con la sveglia, la sostituzione dei pannoloni non deve essere fissata rigidamente dalla routine di lavoro, ma programmata sulla base della capacità assorbente, della tipologia di presidio utilizzato, delle caratteristiche del soggetto utilizzatore e dal tipo di incontinenza. Ad ogni cambio deve comunque essere assicurata una corretta igiene della zona genitale, perineale e sacrale, non dimenticando di controllare lo stato della cute(6). Per cercare di diminuire i cambi notturni è consigliato di aumentare l’assunzione di liquidi e favorire il consumo di frutta e verdura durante il giorno, diminuendo l’assunzione di liquidi dopo le 17. Da ricordare infine che devono essere evitate tutte quelle concomitanze tra presidi ad assorbenza ed altri sistemi a raccolta come il catetere vescicale o le guaine in lattice: si finisce infatti per sottoporre l’utente a tutte le controindicazioni di ogni sistema, senza assommarne i vantaggi. Quando si utilizzano i sistemi a raccolta si deve utilizzare, per sicurezza contro le eventuali perdite o contro l’incontinenza fecale, la traversa monouso ( a meno che il soggetto utilizzatore non soffra di diarrea con numerose scariche giornaliere).

Il corretto utilizzo dei sistemi assorbenti monouso non può prescindere infine dalla corretta preparazione del letto: l’utilizzo della tela cerata classica (per la sua capacità di riscaldare la cute e di formare fastidiose e deleterie pieghe), dovrebbe lasciare il passo ai più moderni, funzionali e confortevoli coprimaterassi impermeabili a doppio strato o a quelli monouso, oppure alle traverse salvaletto anch’esse monouso, molto più confortevoli per i pazienti e sicuramente più igieniche.

Si può obiettare che quanto espresso in questa relazione comporti l’utilizzo di risorse (economiche e di personale) non in possesso di tutte le istituzioni che si occupano di anziani fragili. Si deve comunque affermare che diverse sperimentazioni hanno dimostrato, tra l’altro, che con l’utilizzo di ausili assorbenti di buona qualità diminuisce il carico di lavoro, aumenta il comfort per gli utilizzatori, diminuiscono i fenomeni legati alla macerazione cutanea. Per quanto concerne il prezzo unitario di ogni ausilio, dovrebbe almeno essere fatto il rapporto costo al pezzo/pezzi utilizzati al giorno per ogni incontinente; inoltre dovrebbero essere valutati i costi indiretti dell’incontinenza (lavaggio biancheria piana e personale degli ospiti). Solo incrociando questi semplici dati si può essere veramente sicuri di aver scelto l’ausilio meno oneroso dal punto di vista economico.


Perché parlare di igiene personale?

L’argomento è molto più importante di quanto si possa supporre ad un primo approccio: le attività di igiene personale assorbono nelle RSA una quantità enorme di risorse sia umane che materiali. In uno studio condotto nel 1994 all’interno delle 3 strutture residenziali per anziani della Zona Val d’Elsa della ASL 7 di Siena, le attività correlate a questa funzione assorbivano una percentuale molto prossima al 50% sul totale del tempo destinato all’assistenza diretta degli ospiti nella fascia oraria diurna (dalle ore 6 alle ore 22: rilevazione effettuata tramite diagramma di Gantt).

Inoltre le procedure di detersione e di protezione cutanea, (nonostante siano spesso tralasciate o trattate in modo incompleto e/o superficiale dai consueti percorsi di formazione), sono responsabili, se non attuate in modo corretto, di numerose problematiche, che spaziano dal banale arrossamento alla patologia micotica o eczematosa, per non parlare dell’interazione, già ampiamente dimostrata, tra maldestre procedure di igiene e comparsa di lesioni da compressione (non a caso l’umidità della cute e/o la presenza di incontinenza sono parametri considerati da tutte le scale di valutazione del rischio di insorgenza di lesione da decubito).

A questo punto si può obiettare: ma perchè ricorrere così spesso alle manovre igieniche, visto che spesso ci sono problemi iatrogeni?

La cute per svolgere le sue funzioni protettive e di scambio con l’esterno deve essere mantenuta integra e pulita. La traspirazione cutanea è necessaria per permettere l’evaporazione dell’acqua e garantire così l’eliminazione del calore in eccesso e di alcune scorie: questa peculiarità è ostacolata dalla presenza di secrezioni e di sporco proveniente dell’ambiente circostante che vanno ad ostruire i pori. L’integrità della pelle è invece fondamentale per garantire una valida protezione alle infezioni provocate da microrganismi diffusi nell’ambiente, che vengono continuamente a contatto con l’organismo.

Altro scopo dell’igiene è quello di mantenere la cute elastica, caratteristica fondamentale per il mantenimento della sua integrità.

L’attività di igiene personale non viene comunque svolta soltanto per garantire queste funzioni biologiche. Infatti, come tutti sappiamo, l’igiene ha anche un significato sociale: avendo bisogno di relazioni continue con i sui simili, l’uomo inconsciamente tende, solitamente, ad avere un aspetto che non le ostacoli proprio attraverso l’allontanamento dello sporco dalla cute, che, accumulandosi, non solo rende una pessima immagine di se, ma genera anche cattivo odore, rendendo più difficoltose le relazioni di cui sopra.

Solitamente inoltre, nella nostra cultura di oggi, le attività di igiene sono associate a benessere e rilassatezza: e c’è da credere che sarà così anche quando saremo vecchi.


Breve storia delle consuetudini igieniche.

Il concetto di igiene personale si è molto evoluto nel corso dei secoli: è quindi molto difficile valutare le informazioni sulle consuetudini assistenziali che ci sono giunte, anche perché dovremmo essere certi che tutti coloro che hanno scritto di questo argomento, dessero ai termini “igiene del corpo” il nostro medesimo significato.

L’evoluzione del concetto di igiene personale, ha risentito nel corso della storia europea di notevoli modificazioni, dovute sia alle effettive difficoltà di approvvigionamento di acqua corrente e di sostanze detergenti, sia allo stato dell’arte medica, sia allo sviluppo del cristianesimo, che inizialmente ha considerato le abluzioni peccaminose (si credeva che il corpo a contatto con l’acqua andasse incontro a turbamenti erotici, per cui i monaci effettuavano soltanto pochi bagni molto freddi), E’ comunque interessante sapere che Santa Agnese, morta a 13 anni all’inizio dell’era cristiana, non aveva mai fatto il bagno; San Benedetto da Norcia (IV e V secolo) consigliava ai suoi monaci di farlo raramente. Il primo monaco benedettino diventato papa (Gregorio Magno) modificò questa regola, disponendo per i monaci un bagno a settimana.

Nel 1300, secolo delle grandi pestilenze in Europa, regnava sovrana la convinzione che l’acqua, aprendo i pori della cute, permettesse agli effluvi responsabili della peste di “entrare” nel corpo. Si ricorreva al tempo alla cosiddetta pulizia asciutta, caratterizzata dal cambio della camicia e dall’impiego di unguenti profumati. I bagni pubblici, il cui uso era stato tramandato dagli antichi romani, non vennero più usati per le alte probabilità di contagio. Successivamente molto in uso nelle corti dell’epoca divenne il bagno collettivo, anche se la motivazione principale era più la necessità di intessere relazioni politiche e/o galanti che il bisogno di lavarsi. Nella seconda metà del settecento, accanto all’impiego massiccio di purghe, clisteri e salassi, si diffuse la cultura dei bagni terapeutici di acqua calda, utilizzati però non per migliorare l’igiene come oggi la intendiamo, ma per allontanare gli “umori” (Luigi XIV fece il bagno una sola volta nei suoi 65 anni di vita). L’igiene come oggi la intendiamo era metodica utilizzata solo in occasione delle feste comandate: l’unico detergente usato (quando ci si poteva permettere) era il famoso “sapone di Marsiglia”, che serviva anche per il bucato. L’igiene intima era comunque ancora considerata peccaminosa: solo alle prostitute era consentita (così come anche il bagno) poiché le donne cosiddette “oneste” alla pulizia del corpo potevano contrapporre quella dell’anima.

E’ durante il XIX secolo che inizia a diffondersi l’abitudine di ricorrere all’acqua e sapone per tenere pulito il corpo, anche se, ancora ai primi anni del secolo scorso nei collegi femminili (soprattutto quelli diretti da Istituti religiosi) le ragazze potevano fare il bagno solo indossando delle tuniche e intorbidendo l’acqua con delle polveri per evitare alle medesime la visione del proprio corpo. Solo intorno al secondo dopoguerra, quando l’acqua corrente raggiunge le abitazioni, lavarsi diviene un’abitudine di tutti.

Per quanto concerne l’igiene degli ammalati, dei vecchi e dei poveri, sappiamo che già alcuni secoli prima di Cristo in India chi faceva assistenza (solitamente una donna) doveva essere persona “..dotata di grande capacità, competente nel preparare i cibi, esperta nel lavare l’infermo ed assisterlo nel bagno…, ben pratica nel pulire e lavare il letto”. Le uniche norme igieniche erano comunque di solito quelle raccomandate dai vari testi sacri di tutte le religioni monoteiste, che contenevano prescrizioni di igiene del corpo che venivano inserite tra le attività di vita dell’uomo.

Nel medioevo, grazie all’espansione del Cristianesimo, il concetto di assistenza passò da una dimensione essenzialmente domestica ad una dimensione più istituzionale di ospitalità all’interno di apposite strutture, finanziate da cittadini benestanti in nome dell’amore cristiano e, verosimilmente, in cambio di indulgenze. La nascita di queste grandi strutture di ricovero ed ospitalità portò con il tempo ad un approccio alla cura degli infermi come espressione dell’amore divino, inserendo nella vita sociale valori come la solidarietà e l’aiuto reciproco.

Dal punto di vista concettuale comunque, la malattia, come anche la povertà erano considerate manifestazioni della volontà divina, una colpa a cui è inutile opporsi: è di questo periodo il concetto di custodia e di isolamento degli individui non considerati idonei ad appartenere alla società civile. Chi frequenta da diversi anni le strutture residenziali, soprattutto quelle dove sono ospitati anziani e malati di mente, ha potuto senz’altro notare che questo concetto culturale è purtroppo talvolta ancora presente in alcuni operatori.

Naturalmente le condizioni igieniche di queste grandi strutture di ricovero erano pessime. Solo verso la metà del 1500, Giovanni Ciudad (che prenderà il nome di Giovanni di Dio e sarà successivamente canonizzato), ex soldato di ventura, vagabondo, giocatore incallito, dopo essere fortunosamente scampato al patibolo per rapina e dopo aver sperimentato sulla propria pelle il trattamento riservato ai malati di mente, elaborò alcune regole da adottarsi nei luoghi di ricovero: una dieta appropriata, la divisione della struttura in reparti, il letto occupato da un solo degente, una chiara gerarchia all’interno delle strutture per “l’organizzazione” del personale, un “infermiere” responsabile del funzionamento dell’infermeria, sono tutte novità introdotte da Giovanni di Dio. Naturalmente le novità, come accade ancora oggi, suscitarono molto scalpore e sconcerto nei suoi contemporanei, soprattutto quella dell’uso individuale del letto, poiché era normale ammassare sullo stesso letto fino a tre, quattro o anche cinque degenti sotto le medesime, luride lenzuola. Nel regolamento per gli ospedali dei Fatebenefratelli (da lui stesso fondati), era previsto che al momento dell’ingresso, ad ogni infermo, prima di mettersi a letto “…in modo da assicurare la salute del corpo si dovranno tagliare capelli e le unghie e …se non fosse dannoso per la sua sanità, devono essere lavate mani e piedi e tutto il corpo con acqua tiepida e con vino….” Si prevedeva nello stesso regolamento l’uso di spogliare l’infermo dei suoi abiti e di vestirlo con una camicia bianca e l’uso di lenzuoli e salviettine personali. Le innovative prescrizioni in fatto di igiene personale dei ricoverati rimasero comunque lettera morta per molti anni ancora, anche in considerazione della convinzione dei medici dell’epoca della pericolosità delle abluzioni.

Durante il 1800 gli studi sulle malattie infettive, l’effettivo miglioramento delle capacità tecniche di approvvigionamento di acqua corrente, la maggior disponibilità di tessuti di cotone (più facilmente lavabili rispetto ai tessuti precedentemente usati) e gli studi sulla correlazione tra igiene e possibilità di ammalarsi, iniziarono a modificare il concetto di pulizia. La prima infermiera moderna della storia, Florence Nightingale nel 1859 elaborò una filosofia assistenziale basata sul miglioramento delle pratiche di igiene sia degli ammalati che dell’ambiente che li ospita e basata sulla formazione del personale di assistenza agli infermi: applicò questi precetti durante la guerra di Crimea (1854-1856) nell’ospedale da campo inglese dove lavorava come infermiera, e la mortalità diminuì in modo stupefacente. Da questo momento l’igiene del corpo degli ammalati e la pulizia dell’ambiente, diviene momento centrale di tutte le istituzioni residenziali, siano esse a carattere sociale o sanitario.


La cultura dell’organizzazione e la risposta della struttura residenziale al bisogno di igiene degli ospiti.

Il miglioramento della qualità necessita sempre di un costante adeguamento organizzativo che permetta di risolvere i problemi degli ospiti in modo personalizzato, sulla base di un piano di attività nel quale devono essere esplicitati i risultati attesi. Naturalmente sperimentare ed applicare nuove e più efficaci soluzioni assistenziali richiede la modificazione attiva di una realtà basata spesso sulla rassicurante routine dei gesti quotidiani, che , soprattutto in ambito socio-assistenziale, dove non esiste una tradizione di innovazione tecnologica e di formazione permanente, può generare conflitti di potere-competenza. D’altronde “….le vecchie consuetudini sono dure a morire….tutte le innovazioni teoriche e pratiche stimolano una reazione contraria anche se non sempre uguale.” (D.S. Landes,1999) Non deve quindi sorprendere una certa resistenza al cambiamento, soprattutto in strutture dove la maggior parte dei dipendenti hanno una bassa scolarità di base ed una cultura professionale certe volte basata solo sull’empirismo di alcuni anni di attività.

Dal punto di vista strettamente pratico, dobbiamo affermare che alla base dell’organizzazione del lavoro in ogni struttura residenziale ci devono essere le seguenti caratteristiche:

 La condivisione della mission aziendale;
 Il coordinamento tra l’insieme dei ruoli presenti;
 La coerenza tra gli obiettivi previsti e le risorse messe a disposizione;

Sulla base degli indirizzi forniti dalla legislazione nazionale (D.P.C.M. 22.02.1989 e L.G. del M.d.S. del 31.03.01994), l’unità organizzativa e strutturale di base prevista per le strutture residenziali extraospedaliere si deve articolare su nuclei o sistemi di più nuclei. All’interno di questi (dimensionati per accogliere un numero di posti letto da 15 a 25 con i conseguenti spazi funzionali necessari alla vita di ogni ospite), opera un gruppo di operatori determinato sia in termini numerici che professionali sulla base delle caratteristiche funzionali e di dipendenza del gruppo di anziani assegnati al medesimo nucleo: il significato della strutturazione per nuclei è proprio quello di distribuire e gestire le risorse in funzione dell’omogeneità dei bisogni e delle funzioni residue degli ospiti e dei conseguenti programmi di intervento e risultati da raggiungere.

Dal punto di vista culturale il nucleo vuole rappresentare il superamento del concetto di cronicario suddiviso in reparti sulla base di patologie prevalenti (dove il focus assistenziale è rappresentato dalla malattia) e vuole enfatizzare il ruolo della residenzialità come domicilio (dove il focus assistenziale è rappresentato dalla persona).

Dal punto di vista operativo, dobbiamo convenire che un piccolo gruppo di anziani con problematiche psico-funzionali omogenee presidiato dagli stessi operatori, permettere di raggiungere una migliore qualità assistenziale per mezzo di un calcolo più accurato del rapporto carico di lavoro-risorse di personale, della conoscenza aggiornata dei progetti assistenziali individuali e dei problemi di ogni assistito e di una maggiore specificità nell’addestramento del personale.

Dal punto di vista gestionale ogni nucleo è presidiato da un responsabile di nucleo, che dovrebbe essere un infermiere od un altro operatore all’uopo formato (R.A.A.) con compiti di:

 Presidio del nucleo e sua organizzazione;
 Gestione delle risorse umane e materiali attribuite al proprio nucleo;
 Assunzione di responsabilità sui risultati raggiunti;
 Promozione costante della qualità di vita degli ospiti attraverso la verifica continua dei risultati dei progetti assistenziali;
 Raccolta dei gap formativi del personale afferente al nucleo, in modo che le attività di formazione ed aggiornamento siano centrate sulle reali necessità operative.

Per una più ampia raccolta di informazioni su questo ruolo, si rimanda a quanto stabilito dalla direttiva n° 560 del 1991 della Regione Emilia Romagna, che unica nel panorama italiano ha introdotto la figura del Responsabile delle Attività Assistenziali (R.A.A.) definendone percorso formativo, compiti e posizione contrattuale.

Altri operatori presenti nei nuclei sono:

 gli Operatori Socio-Sanitari (OSS) la cui creazione sul tutto il territorio nazionale è stata definita dal Provvedimento della Conferenza Stato-Regioni del 22.02.2001, che espletano un corso di formazione di 1000 (di cui 450 di teoria, 100 di aula dimostrazioni e 450 di tirocinio pratico) ed hanno compiti di “..assistere la persona, in particolare non autosufficiente o allettata, nelle attività quotidiane e di igiene personale(…) sa svolgere attività finalizzate all’igiene personale, al cambio della biancheria, all’espletamento delle funzioni fisiologiche, all’uso corretto dei presidi, ausili ed attrezzature…”;

 gli operatori ASA/OSA/ADB/ADEST a seconda della regione di formazione, hanno svolto un corso teorico pratico di 250/400 ore e svolgono essenzialmente attività (oltre alla pulizia dell’ambiente) di rifacimento del letto vuoto ed occupato, igiene personale dell’utente, mantenimento delle posizioni terapeutiche;

 Ausiliari socio-sanitari ed ausiliari socio-sanitari specializzati, spesso assunti direttamente dalle liste di collocamento e senza nessuna particolare formazione, si occupano di pulizia ambientale e di assistenza di base agli ospiti.

Una così massiccia presenza di personale scarsamente qualificato impone quindi l’utilizzo di sistemi di implementazione della motivazione, di formazione continua e di controllo, così come sono essenziali adeguati strumenti di guida dei comportamenti sia tecnici che relazionali.

Particolare attenzione deve essere posta nella organizzazione di attività che sviluppino la motivazione degli anziani: non è facile infatti, operare con utenti che spesso hanno perso il compagno di una vita, che sono stati abbandonati dalla famiglia, che hanno perso qualsiasi importanza sociale, che sentono minata la propria autonomia fisica e che si stanno avvicinando (anagraficamente) alla morte. In questi casi ottenere la collaborazione necessaria alla buona riuscita dei piani di recupero e di mantenimento della massima autonomia possibile è necessario e fondamentale.



Protocolli assistenziali:inquadramento concettuale

La produzione e l'utilizzo di protocolli nella pratica infermieristica ed assistenziale in generale non costituisce un fatto assolutamente nuovo. Da anni, infatti, i protocolli appartengono definitivamente al patrimonio metodologico dell'assistenza e sono oggetto di un ampio dibattito scientifico. La validità di tali strumenti è testimoniata dalla loro diffusione nell'ambito clinico e dal ruolo che essi svolgono nella ricerca applicata e come strumento di confronto tra esperienze assistenziali diverse. Negli ultimi anni all'interno della professione infermieristica si è delineata e diffusa la convinzione che la crescita culturale e la valorizzazione sociale dell'assistenza infermieristica sia perseguibile a partire da risultati infermieristici 'propri', basati su evidenze scientifiche e dimostrati mediante specifici percorsi di ricerca clinica (Evidence Based Nursing): in base a questa tendenza è ragionevole prevedere che i protocolli assumeranno in futuro una rilevanza crescente.

Autorevoli contributi scientifici - elaborati in risposta a domande quali: cos'è un protocollo assistenziale? A cosa serve? Come lo si costruisce? Come lo si usa? - hanno già trovato una fattiva collocazione nell'ambito della disciplina infermieristica, cioè all'interno di un insieme di conoscenze - insegnate nei corsi universitari ed applicate nell'esercizio dell'assistenza infermieristica in relazione ai servizi alla salute - che si sono accumulate nel corso degli anni e che oggi costituiscono la base disciplinare di una specifica competenza tecnica infermieristica e tecnico-assistenziale.

Ma perchè è importante adottare i protocolli?

Ad oggi la definizione delle attività assistenziali, non solo infermieristiche, si muove in un clima di mutamento nella cultura sanitaria, connesso ai processi di 'aziendalizzazione' della Sanità avviati negli anni Novanta, concernete il concetto stesso di salute, ora inteso anche come bene di tipo economico. Ne consegue il riconoscimento che l'attività sanitaria e assitenziale, in quanto attività economica, può essere sottoposta al giudizio delle scienze economiche e da queste stesse essere orientata. Ciò significa che tutti i servizi mirati alla promozione e alla tutela della salute devono poter essere confrontati con i costi che li sostengono e che tale operazione di confronto deve produrre informazioni utili al sistema responsabile delle decisioni in ambito di programmazione sanitaria. L'assistenza infermieristica e socio-sanitaria, in quanto sottosistema professionale che realizza attività di produzione di servizi al cliente, è dunque oggetto di valutazione non solo da parte dell'infermiere,dell'Operatore Socio-Sanitario, del paziente, del medico, dell'esperto di etica, ma anche dell'economista.

Un altro criterio di giudizio dell'assistenza, nel nuovo contesto sanitario, si ricava dall'evoluzione dei canoni di riferimento per la valutazione della qualità dei servizi alla persona. Nella sua accezione generica, la qualità è intesa come la globalità degli aspetti e delle caratteristiche di un prodotto o servizio, da cui dipendono le sue capacità di soddisfare completamente un bisogno. La qualità della prestazione assistenziale, in particolare, è costituita da una dimensione oggettiva (o tecnico-professionale), individuabile mediante procedimenti di misurazione oggettiva, ma anche - e soprattutto - da una dimensione soggettiva, riferita alla soddisfazione del cliente. Nella valutazione della qualità dell'assistenza, le dimensioni oggettive e soggettive sono da sempre riconosciute e, quindi, devono orientare l'attenzione sia verso i contenuti tecnico-scientifici della prassi professionale sia verso il vissuto psicologico ed i significati culturali che la persona assistita esprime.

I principi di economicità e di qualità si traducono operativamente nella ricerca di efficienza ed efficacia dei servizi sanitari secondo un obiettivo che, semplificando, potrebbe suonare: "i migliori prodotti (o servizi) al minor costo". Tale ricerca implica ovviamente un investimento nella razionalizzazione dei processi gestionali ed organizzativi: un primo tipo di intervento - di per sé non sufficiente - riguarda la standardizzazione dei processi di lavoro e l'efficienza tecnica, esito della definizione di sequenze di operazioni produttive che meglio permettono di raggiungere un determinato scopo e a minor costo. Un secondo tipo di intervento riguarda, in senso più generale, l'efficienza organizzativa ed implica dunque l'adozione di modelli 'per processi', che esaltano la centralità del cliente e la gestione delle attività di servizi ad esso rivolti, intese come flussi interdipendenti ed integrati da sistemi informativi. Quest'ultimo approccio vuole superare modelli organizzativi più tradizionali, che confinavano il miglioramento della qualità all'interno delle singole e separate "funzioni". Al contrario, la RSA genera valore (cioè soddisfa una domanda di salute) attraverso i suoi processi e l'integrazione di molteplici contributi professionali e non mediante le sue funzioni. L'assistenza (infermieristica e socio-sanitaria) è dunque chiamata a confrontarsi con i temi della standardizzazione e della riorganizzazione 'per processi'. In via di principio, la logica della pianificazione dell'assistenza e dell'utilizzo di protocolli assistenzilai appare compatibile con i nuovi approcci e da essi anzi può trarre nuove opportunità, a condizione che siano rispettati i vincoli impliciti nella natura professionale ed etica dell'attività infermieristica, volendo, con tale espressione richiamare il fondamentale assunto che l'assistenza infermieristica risponde a tutto l'uomo e non solo ad una parte di esso e promuove approcci olistici e non parcellizzati alla salute. Occorre dunque accogliere la logica della standardizzazione delle attività a condizione che il gruppo assistenziale mantenga e consolidi la propria competenza non solo sulle cose che si devono fare ma anche sui 'risultati che si devono raggiungere e sui modi per controllarli. In altre parole, l'infermiere e l'Operare Socio-Sanitario, anche se co ruoli diversi, devono essere non solo esecutori, ma anche decisori: qualsiasi attività di pianificazione dell'assistenza deve presupporre l'esplicitazione di un risultato (un più di salute) controllato dall'infermiere che possiede competenza, autonomia e responsabilità per raggiungerlo. Solo la valutazione del risultato in forma non separata dagli aspetti operativi che concorrono al suo raggiungimento impedisce quella scissione fra aspetti decisionali ed aspetti esecutivi.


L’igiene personale dell’anziano in RSA:

La pulizia della cute.

La pulizia della pelle deve essere eseguita usando prodotti e procedure che non alterino il suo equilibrio naturale. La pelle, per la sua posizione periferica, è esposta ai danni provenienti dall'esterno: raccoglie polvere e germi che si mischiano al sebo e al sudore alterando l'equilibrio della sua superficie.

La detersione è l’insieme degli atti posti in essere per giungere ad una adeguata pulizia della pelle stessa. Le sue finalità sono da ricondurre essenzialmente a: riduzione dello sporco ambientale accumulato sulla cute, riduzione dell’eccesso delle secrezioni sebacee e sudorali, per eliminare le cellule morte e per, come già detto, diminuire i microrganismi ambientali che vi si sono accumulati. Pur essendo un’azione tecnicamente scontata, si deve cercare di rispettare il più possibile il film idrolipidico e l’integrità della cute. La detersione deve essere completata da una corretta ed efficace asciugatura della parte, da effettuarsi con materiali morbidi ed assorbenti, preferibilmente monouso ed attraverso movimenti di “tamponamento” (per evitare possibili microlesioni cutanee da sfregamento), poiché la cute rimasta umida è maggiormente sottoposta a fenomeni di macerazione cutanea, proliferazione microbico e micotica e quindi a fenomeni irritativi (che provocando un forte prurito, possono essere oggetto di lesioni da grattamento).

Oggi, si tende ad un uso eccessivo di detergenti spesso inadeguati. La loro azione lesiva viene incrementata dall'utilizzo, nella loro formulazione, soprattutto per questioni economiche, di sostanze eccessivamente aggressive.

Un buon prodotto detergente deve essenzialmente possedere:

1. una buona capacità di rimuovere lo sporco;
2. un'azione emolliente in grado di garantire una pulizia a fondo la pelle senza inaridirla e irritarla, rispettando quel film idrolipidico che funge da difesa e protezione contro l'attacco degli agenti esterni dannosi;.
3. essere poco schiumogeno;
4. essere facile da risciacquare;
5. garantire un buon rapporto qualità-prezzo;

Per la detersione si possono usare diversi tipi di detergente:

 Acqua: sempre utilizzata (a meno che non si ricorra a detergenti come le wash-creams o le schiume) , può provocare secchezza ed irritazione a causa dell’abbondante clorazione cui sono sottoposte le acque provenienti dagli acquedotti pubblici;

 Il sapone: è il gruppo di detergenti più utilizzato in assoluto. E’ un prodotto che si ottiene con la saponificazione, cioè con un processo chimico che neutralizza gli acidi grassi con soda e potassa. Il comune sapone è un tensioattivo anionico, perciò è una molecola in grado di abbassare la tensione superficiale, di solubilizzare il grasso e lo sporco, ma contrasta con la situazione fisiologicamente acida della superficie cutanea. Si può dire che i comuni saponi da toeletta contribuiscono a dare un senso di pulito e di gradevole profumo e sono abbastanza innocui se usati con moderazione per pelli fisiologicamente sane, ma sono poco adatti ad un uso intensivo nelle strutture per anziani. Il sapone ha queste caratteristiche: è economico, ha un potere detergente molto elevato, ha un pH fortemente alcalino (da 8 a 10), ha un alto potere schiumogeno ed è poco stabile (alcuni saponi “neutri” lo sono fino al contatto con l’acqua, poi il pH cambia). Il sapone tradizionale è una barra solida, ma per l’utilizzo all’interno delle strutture residenziali viene di solito utilizzato in formulazione liquida. Alcuni saponi sono meno delipidizzanti grazie all’aggiunta di lanolina, ed altri composti a base grassa.

 Il sapone non sapone (o Syn-Det o Saugella): è ottenuto chimicamente senza il processo della saponificazione: questo rende il suo pH (solitamente oscillante fra 3 e 5), molto più stabile che nel sapone classico. E’ costituito da tensioattivi di natura diversa, miscelati a cere e polisaccaridi ai quali vengono aggiunte altre sostanze ammorbidenti ed umettanti. . E’ un ottimo detergente ed in genere è delicato sulla cute. Quando si usa questo prodotto se ne deve utilizzare una quantità minima per pulire e fare schiuma, ma è fondamentale risciacquare a lungo la pelle per evitare di lasciarne tracce. Una controindicazione nell'utilizzo di questo sapone o di quello tradizionale, è che l'esposizione all'aria sul portasapone rende il prodotto in forma solida igienicamente inadeguato: infatti di solito nelle RSA si utilizzano in forma liquida, con dosatori chiusi che garantiscono una migliore condizione igienica.

 Il sapone di marsiglia: la tradizione vuole che anticamente a Savona la moglie di un pescatore abbia ottenuto per la prima volta il sapone in modo del tutto accidentale e "casalingo", facendo bollire della liscivia di soda in una pentola contenente Olio di Oliva. Lo sviluppo dell'industria saponiera nelle città costiere del Mediterraneo (Savona, Genova, Venezia e Marsiglia) fu pertanto favorito dalla presenza di Olio di Oliva e di soda naturale ottenuta dalle Ceneri delle Piante Marine (e sostituita a partire dal 1792 dalla soda artificiale grazie al processo scoperto dal chimico francese Leblanc); al composto di soda ed olio di oliva veniva aggiunta una percentuale dell’1-5% di olio di rosmarino, per renderlo maggiormente emolliente e veniva fatto indurire per diversi mesi. Tutti i saponi che non hanno queste caratteristiche non sono “sapone di Marsiglia”, pertanto l’uso per l’igiene personale è sconsigliato.

 Bagnoschiuma e shampoo: sono composti da tensioattivi sintetici appartenenti a diverse categorie. La loro caratteristica è di essere molto concentrati, profumati e schiumogeni, il che li rende inadatti all’uso quotidiano nell’igiene dell’anziano in RSA.

 Olio da bagno: ha un basso potere detergente poiché deterge per assorbimento delle molecole di sporco. Non altera il pH cutaneo, crea un buon film protettivo sulla pelle, non è schiumogeno e può avere un azione emolliente e lenitiva ma non può essere utilizzato a lungo, poiché si occludono i pori dei follicoli pilo sebacei e si corre il rischio di provocare una irritazione.

 Wash cream: ha un ottimo potere detergente, non altera il pH della cute, si utilizza senza acqua e consente di idratare la cute contemporaneamente alle manovre di detersione. Consente di risparmiare il tempo dell’asciugatura (e quindi tutti i problemi legati a questa procedura) e sull’utilizzo della crema base.

 Schiuma detergente: ha le stesse caratteristiche della crema detergente ma, grazie alla sua densità si applica più facilmente.

L’applicazione della crema base (che è oggi raccomandata da tutti i dermatologi), deve sempre seguire le manovre di igiene (a meno che non si utilizzino creme o schiume detergenti), soprattutto nelle zone maggiormente sottoposte a traumi da sfregamento (regione sacrale e pieghe cutanee). Le caratteristiche principali della crema base sono di essere idratante, non untuosa, evanescente e lenitiva.

L’azione detergente, se non accompagnate da manovre di idratazione, può provocare alcuni problemi quali:

I. Cute secca (la pelle si assottiglia ed assume il caratteristico aspetto “a carta di sigaretta”);
II. Cute disidratata (sulla pelle appaiono delle “rughette”);
III. Cute desquamata (caratteristica della faccia anteriore della tibia).

In questa fase l’assistito comincia a lamentare prurito occasionale, quasi sempre dopo il lavaggio. Per correggere questo quadro è sufficiente, come già detto, la crema base. Se si utilizzano creme troppo grasse si può ulteriormente peggiorare il quadro clinico (per l’azione di chiusura dei pori), così come anche se si utilizzano formulazioni in gel, che, a causa del loro contenuto alcoolico, disidratano ancora di più la pelle. Nella valutazione di questo tipo di problemi non si può soprassedere dal considerare, oltre alla clorazione ed alla durezza dell’acqua, anche il residuo di detersivo che resta sulle lenzuola, che può predisporre, specie nei soggetto allettati (unitamente alla sudorazione, ai movimenti ripetitivi, alla presenza di pieghe o di residui alimentari), all’insorgenza di problematiche dermatologiche anche serie.

Oltre a questi tre gradi di disidratazione si possono avere:

I. Piccole lesioni eritematose (Eczema);
II. Vere e proprie lesioni della cute nella sua interezza.

In questi ultimi due casi, che rappresentano le fasi estreme della disidratazione cutanea, è d’obbligo la sospensione dell’applicazione di qualsiasi sostanza sulla pelle ed il consiglio del medico specialista, che prescriverà creme cortisoniche, antibiotiche o antimicotiche per pochi giorni (per non rischiare danni da cortisonico topico o fenomeni di sensibilizzazione).

Oltre alle sostanze detergenti, vi sono altri prodotti che vengono utilizzati ad integrazione delle manovre igieniche, il cui uso non sempre è suffragato da indicazioni precise, ma la cui applicazione è pressochè routinaria:

 Crema allo zinco: ha funzione decongestionante e di solito è ben tollerato. Può essere usata anche in presenza di piccole lesioni superficiali leggermente umide. Crea comunque una barriera impenetrabile sotto la quale si creano le condizioni ideali per un aumento della proliferazione batterica. Tende a far seccare la cute e quindi deve essere completamente rimossa almeno ogni 2 giorni, meglio con un olio anziché con acqua.

 Polveri e pomate con vitamine: il loro uso non ha alcuna giustificazione dermatologica. Solo la Vitamin Dermina incontra un certo consenso, anche se la sua utilità non è stata dimostrata.

 Sof Argent: è una sostanza antibatterica che deve essere usata solo in presenza di cute irritata e leggermente erosa, quando ci sia il sospetto di una sovrammissione batterica. Può provocare fenomeni irritativi nelle persone allergiche ai sulfamidici.

 Katoxin o Rocospray: sono spesso utilizzati come “spray antidecubito”, ma per la verità il Katoxin ha un’azione disidratante sulla cute (allo stesso modo delle creme allo zinco), mentre il Ricospray usato in sede sacrale in persone che stanno sedute per lunghi periodi, crea irritazione cutanea.

Scelta del prodotto detergente. Nelle RSA è consigliabile differenziare la scelta del prodotto sulla base delle caratteristiche degli ospiti e sulla base del tipo di igiene a cui sono destinati. Per gli assistiti deambulanti non ci sono particolari problemi, e si possono anche utilizzare i comuni detergenti, purché di buona qualità. Nel caso di ospiti parzialmente o completamente disabili, incontinenti, costretti a letto, con movimenti ripetitivi o costretti in decubito obbligato, la cura nella scelta dei prodotti da acquistare è fondamentale e non deve in nessun modo guidata da criteri di minor costo: se si adotta un buon sistema di prodotti studiati appositamente per l’igiene di questo tipo di persone, soprattutto quelli che si utilizzano senza acqua, integrati da un corredo di salviette molto morbide ed assorbenti per l’applicazione e la rimozione del detergente, sarà maggiormente garantita l’azione pulente abbinata al rispetto dell’integrità cutanea: inoltre con questi prodotti si eliminano i problemi legati ad una errata asciugatura. Questi sistemi sono alla fine, per il risparmio che si ottiene sull’acquisto di pomate medicamentose e materiali da medicazione (ed anche sui tempi assistenziali) e per l’effettivo aumento del comfort degli anziani e l’assenza di complicanze iatrogene, da preferire ai consueti sistemi che prevedono l’utilizzo combinato di acqua, sapone liquido, spugna, crema base, ed asciugamano di stoffa. Anche nel caso in cui sotto all’ospite non può essere posizionata la padella, di deve ricorrere alle creme e schiume detergenti, poiché lavando l’anziano con l’acqua ed il comune detergente direttamente sulla traversa è tecnicamente impossibile attuare un risciacquo accurato: inoltre l’acqua sporca derivata dal lavaggio della zona genitale ed anale, non essendo raccolta, viene a contatto con una superficie di pelle molto ampia.

Ausili per l’igiene. Per gli ausili da usare come coadiuvanti nell’azione detergente, si dovrebbe escludere tutto il materiale non monouso: ciò consente infatti di utilizzare manopole e salviette sempre pulite ed asciutte.

L’uso di spugne (anche monopaziente) ed asciugamani di stoffa dovrebbe essere eliminato, poiché, restando umidi dopo le manovre di igiene, divengono dei veri e propri terreni di coltura per i microrganismi che vi sono presenti. Altri svantaggi dell’utilizzo delle salviette di stoffa per l’asciugatura sono:

- la presenza di sostanze irritanti che restano sulle salviette di stoffa per l’asciugatura dopo il loro lavaggio;
- la mancanza di morbidezza del tessuto (soprattutto dopo ripetuti lavaggi ad alte temperature), che può provocare piccole abrasioni sulla cute;
- l’insufficienza capacità assorbente, che rende più lunghe e difficoltose le manovre di asciugatura, soprattutto in corrispondenza delle pieghe cutanee.

Attenzioni particolari. Tutti gli operatori che si apprestano ad eseguire manovre di igiene personale devono mettere i guanti protettivi monouso, che devono essere utilizzati in modo differenziato a seconda del tipo di igiene e delle condizioni dell’anziano, devono essere rigorosamente cambiati dopo le manovre assistenziali ad ogni ospite e che non devono sostituire un corretto lavaggio delle mani dell’operatore stesso. L’uso non disciplinato dei guanti porta alla diffusione di sporco, microrganismi e spore all’interno della struttura (soprattutto attraverso la divisa degli operatori, le maniglie delle porte, dei carrelli, ecc.), costituendo così un potenziale pericolo non solo per gli anziani ospiti ma anche per gli operatori ed i visitatori.

Ogni operatore ha inoltre il dovere di non incrementare la carica batterica presente nell’ambiente della RSA curando la propria igiene personale, con particolare riferimento alla divisa e soprattutto all’igiene dei capelli e delle mani (con particolare attenzione agli spazi interdigitali e sottoungueali).


La programmazione dell’intervento.

Il compito che deve essere svolto nei confronti dell’assistito è quello di garantire un’igiene cutanea fatta nel modo più efficace possibile, cercando, prima di tutto, di non arrecare danni iatrogeni, ed inoltre di mantenere un approccio che sia improntato sull’educazione, sul rispetto e utilizzando strategie comunicative che tengano conto sia del livello culturale sia delle possibili distorsioni della comunicazione dovute a possibili deficit degli organi di senso dell’assistito. Si dovranno altresì rispettare le comuni indicazioni per il mantenimento della privacy, fatto questo troppe volte soprasseduto nell’assistenza agli anziani. Se non ci sono controindicazioni, il luogo di elezione per l’effettuazione dell’igiene personale è il bagno.

L’organizzazione vera e propria delle procedure di igiene all’interno dei nuclei delle RSA dovrà avvenire analizzando le caratteristiche degli ospiti del nucleo stesso e le risorse strumentali, materiali e di personale messe a disposizione. Solitamente la destinazione degli ospiti versi i diversi nuclei è determinata dal loro grado di dipendenza. Per questo motivo l’assessment dell’anziano è il momento fondamentale per la programmazione di ogni intervento, poiché si deve assicurare un intervento che non sia ne assistenzialmente insufficiente ne tantomeno eccessivamente sostitutivo.

Dopo la valutazione e la stesura di piani di intervento personalizzati , lo strumento da predisporre è il piano di lavoro, strumento teso ad esplicitare gli obiettivi del nucleo e le azioni da porre in essere per il loro raggiungimento, nonchè teso ad indicare le condizioni organizzative necessarie e gli indicatori di verifica dei risultati. Nella sua elaborazione, che deve essere necessariamente multidisciplinare, si dovranno tenere presenti non tanto gli orari delle attività (centralità su chi fa/quando) ma si dovrà porre la massima attenzione ai progetti formulati per ogni ospite (centralità su cosa si fa/come).

La progettazione dell’intervento vero e proprio dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione di almeno 4 clinical pathways (profili assistenziali) da applicarsi in corrispondenza dei 4 livelli di disabilità che si possono riscontrare:


Stato funzionale Profilo di assistenza

Anziano autonomo Sorveglianza e controllo
Anziano con leggera dipendenza Sorveglianza, stimolo, talvolta aiuto
Anziano con parziale dipendenza Aiuto costante per alcune funzioni
Anziano totalmente dipendente Aiuto costante per tutte le funzioni


L’esecuzione dell’intervento di igiene personale cambia quindi in funzione alle caratteristiche degli anziani ospitati nel nucleo. Le manovre di igiene da garantire all’interno delle strutture sono determinate da piani di lavoro, di cui riportiamo un esempio:



ESEMPIO DI PIANO DI LAVORO GENERALE RELATIVO ALL’IGIENE PERSONALE DEGLI OSPITI


Procedure di igiene a frequenza giornaliera:

Manovre igieniche al mattino: - assistere l’ospite, aiutarlo, stimolarlo (se impossibilitato a farlo da solo sostituirlo) per l’esecuzione di igiene del viso, delle mani, dei denti (o della protesi), dei genitali e del perineo, degli arti inferiori.
- rifacimento del letto con cambio della biancheria al bisogno;

Manovre igieniche prima dei pasti: - igiene delle mani;

Manovre igieniche dopo i pasti: - rimozione dei residui di cibo dalle mani, dal viso e dai denti;

Manovre igieniche prima di coricarsi: - igiene dei genitali, del perineo e della regione sacrale durante il cambio del pannolone (se non vi è presenza di materiale fecale si possono utilizzare le apposite salviette monouso già all’uopo predisposte);

Manovre igieniche al bisogno: - igiene intima dopo l’evacuazione.
- igiene con le apposite salviette monouso ad ogni cambio di pannolone (o dopo l’uso del bagno per gli ospiti parzialmente autosufficienti);
- bagno completo nel caso di contaminazione di liquidi biologici del letto o dell’ospite seguito dal cambio completo della biancheria personale e del letto stesso;

Controlli: - dello stato del pannolone e cambio all’occorrenza;
- dello stato della cute (da effettuarsi anche in concomitanza con le manovre di igiene personale);

N.B.: In caso di lesioni cutanee, presenza di febbre, immobilità prolungata a letto, aggravamento evidente dello stato psico-fisico, demenza con grave disorientamento temporo-spaziale i controlli devono essere più assidui ed il piano di cura individuale deve essere costantemente aggiornato.

Rapporti dettagliati all’infermiere in caso: - di anomalie cutanee;
- di modificazione dell’aspetto quali-quantitativo delle escrezioni;
- di modificazioni dello stato psico-fisico;
- di modificazioni del comportamento;
- di modificazioni nell’apporto di alimenti solidi e liquidi;
- di modificazioni del ritmo sonno veglia;
- di modificazioni delle capacità nella esecuzione delle normali attività quotidiane;

N.B. queste attività devono essere svolte in luoghi appositamente predisposti (a meno di temporanei ed eccezionali casi disposti dall’infermiere, nei quali l’ospite pasteggia a letto) .

Negli ospiti incontinenti è preferibile distribuire l’apporto di liquidi soprattutto al mattino e nelle prime ore del pomeriggio, al fine di diminuire le deiezioni di urina durante la notte, dove, essendoci meno personale, il cambio del pannolone crea maggiori problemi.

Servizi a frequenza bisettimanale:

Manovre igieniche: - rasatura della barba;
- cambio della biancheria del letto (se non cambiata al bisogno);
- lavaggio indumenti intimi e biancheria da letto (a temperatura di 90°C e varechina);

Servizi a frequenza settimanale:
Valutazioni dello stato funzionale: - valutazione con scala di Norton degli ospiti potenzialmente a rischio di sviluppo di lesioni da compressione.
Manovre igieniche: - lavaggio dei capelli;
- bagno completo o doccia assistita ( che possono essere anche fatte in luogo dell’igiene mattutina);

Servizi a frequenza quindicinale:
Manovre igieniche: - cura dei capelli (presenza in RSA del parrucchiere);
- cura delle unghie (presenza in RSA del pedicure);

Servizi a frequenza mensile:
Valutazione dello stato funzionale: - valutazione di tutti gli ospiti con la scala ADL di Katz sia per la certificazione dello stato di autosufficienza o non autosufficienza, sia per la valutazione del piano di cura individuale;
Valutazione dello stato mentale - valutazione degli ospiti con palesi o dubbie diagnosi di decadimento mentale. Deve essere svolta utilizzando la Mini Mental State Examination;

Gli obiettivi da perseguire con le attività di igiene personale sono equivalenti per tutti gli anziani ospitati nei diversi nuclei (cambia, come detto, l’approccio tecnico), e possono essere così sintetizzati:
- garantire il benessere psicofisico dell’anziano;
- prevenire l’insorgenza di infezioni;
- prevenire l’insorgenza di lesioni cutanee;
- promuovere il comfort dell’anziano.

Dobbiamo comunque rilevare alcune differenze fondamentali nell’assicurare l’igiene personale ad anziani afferenti a nuclei di RSA diversi:

Per quanti sono ospitati nei nuclei Alzheimer l’intervento in oggetto, che, come detto, deve sempre essere ispirato alla massima educazione rispetto e salvaguardia della privacy, deve essere improntato sui principi della gentle care, cioè sulla promozione del benessere del paziente in assenza di ogni possibile fonte di stress. A seconda delle condizioni cognitive e funzionali, l’intervento potrà essere sia totalmente sostitutivo, sia basato sulla ricerca della collaborazione, da stimolare in modo pieno e convinto soprattutto negli stadi iniziali della malattia. Naturalmente la scelta del tipo di approccio da garantire agli anziani ospitati in questo tipo di nucleo andrà tarata, come sempre, sulla base di quanto disposto dal progetto individuale di assistenza; l’attività di igiene può infatti essere considerata come base per quanto concerne gli ambiti di intervento riabilitativi aventi per finalità il mantenimento delle relazioni interpersonali, lo sviluppo od il mantenimento dell’autonomia personale e lo sviluppo delle funzioni motorie.

Per quanti sono ospitati nei moduli riabilitativi le procedure di igiene devono essere organizzate in modo tale da assicurare il maggior impegno possibile da parte dell’anziano, ferme restando le sue possibilità motorie. In questi moduli particolare importanza riveste l’abitudine all’uso del bagno, allo scopo di stimolare l’ospite ad un maggior movimento e di prevenire la regressione che coglie più facilmente gli ospiti oggetto di cure improntate esclusivamente sulla totale sostituzione. Trattandosi di solito di persone con buone capacità cognitive, è molto importante la cura dell’aspetto relazionale: l’operatore dovrà infatti fungere da molla motivazionale, essendo questa la base di ogni intervento riabilitativo. Anche in questo caso le procedure di igiene dovranno essere inserite nel progetto di riabilitazione, così che l’ospite possa perseguire simultaneamente più di un obiettivo (aumento delle capacità funzionali di uno o più arti, stimolazione dell’autonomia personale, sviluppo delle relazioni sociali con gli operatori).

Per quanto concerne i nuclei per anziani parzialmente autonomi si possono configurare diversi profili di intervento, a seconda dei domini funzionali e cognitivi posseduti da ogni ospite. Si dovrà optare comunque per un modello teso al mantenimento delle capacità residue di ogni ospite, quindi ogni intervento di igiene dovrà essere progettato sulla base dei risultati della valutazione multidimensionale.

In caso di presenza di lesioni da compressione o di ferite chirurgiche del basso addome, del solco intergluteo, della zona perianale, del perineo della zona sacrale o trocanterica è oggi vivamente consigliato l’uso di detergenti “a secco” (creme o schiume detergenti) che non bagnando con l’acqua sporca del risciacquo le medicazioni, non provocano l’infezione delle ferite stesse (evitando così l’allungamento dei tempi di guarigione) e non costringono al cambio delle bende (consentendo un risparmio sia sul tempo di assistenza che sul materiale da medicazione).

Nella programmazione delle manovre igieniche si devono necessariamente tenere presenti le condizioni degli ospiti, ad esempio nei pazienti diabetici dovrà essere curata particolarmente l’igiene dei piedi, mentre nei pazienti sovrappeso particolare cura deve essere posta nell’igiene delle pieghe cutanee.

Qualche riflessione, per terminare, anche per quanto concerne la preparazione del letto degli ospiti: già posta l’attenzione sulla necessità del controllo della qualità dei detersivi usati nel lavaggio della biancheria lettereccia, particolare attenzione deve essere posta alla limitazione dell’uso di tele cerate, perché provocano problemi di ipersudorazione e riscaldamento cutaneo che possono inficiare anche le migliori tecniche di detersione cutanea. In casi particolari sono molto più confortevoli gli speciali coprimaterassi lavabili come la comune biancheria ma impermeabili (per la salvaguardia del materasso). L’uso di traverse di stoffa non ha alcun senso (sono da preferire quelle monouso, ma dobbiamo riflettere sulla necessità del loro utilizzo) a meno che non si debba provvedere alla movimentazione nel letto di un ospite con sindrome ipocinetica particolarmente pesante.



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